
Captivi
di Anna Losurdo
Non è facile descrivere “CAPTIVI”, di Enrico Sbriglia, perché è un libro strano, “fuori dalle regole”, in una parola non omologato.
A volte sembra che accarezzi il lettore, facendogli intravedere un mondo delle carceri ben diverso da quello che spesso i luoghi dell’immaginario e della cronaca descrivono: una realtà quasi confortante, protettiva.
Altre volte, invece, lo lascerà senza fiato, agitandolo tra interrogativi e timori.
“CAPTIVI” descrive, comunque, un carcere marcatamente “italiano” nei suoi paradossi, nel suo persistere da troppo tempo in un equilibrio precario, dove tutto alla fine è opinabile. Così come forse, in fondo, sono discutibili le stesse idee di giustizia e di pena, diffuse in questi anni di confusione sistematica del diritto. E ciò sia negli ambienti istituzionali sia tra la gente comune e, ancora, nella letteratura e nel cinema che sono spesso veicoli, anche inconsapevoli, di tendenze e di semplificazioni fuorvianti e pericolose.
Sbriglia raccoglie scampoli, rimestandoli, di ricordi professionali realmente vissuti e di situazioni limite. Il suo protagonista, Cesare Sanfilippo, dovrà affrontarle talvolta in modo originale, ben comprendendo come non possa commettere alcun errore all’interno di quel mondo fatto di ferro e di speranze appese.
I capitoli sono in ordine alfabetico, perché ogni storia è intitolata col nome dei detenuti o, in un caso, con quello di un’agente della polizia penitenziaria femminile.
La sensazione che emerge dalla lettura sembra quella dell’esistenza di un rapporto speciale che il protagonista direttore ha con ciascuna persona detenuta e con le loro storie.
Alberto, Alessandro, Amedeo, Bambi, Branko, Bruna, Carmen, Daniel, Dimitri, Don Ciccio, Felipe-Irene, Fiorellina, Gabriele, Granto, Hamed e Andras e gli altri sono essere umani in carne ed ossa, sono i “CAPTIVI”, i prigionieri, che incrociano nella loro vita quella del direttore Sanfilippo.
Questo singolare servitore dello Stato cercherà di comprenderli, dipingendone distintamente i profili psicologici e quelli umani: i loro, e in fondo anche i suoi, limiti.
Insomma, si instaureranno dei rapporti umani che sono proprio tutto il contrario di ciò che viene di solito, ed erroneamente, immaginato quando si parla di carcere e della sua comunità detenuta e detenente insieme.
Dice in proposito l’Autore:
“Sono ventisei e più nomi. Una buona parte di essi sono stranieri e perciò richiamano altre culture, altri continenti, altre storie di paese, ma si ritroveranno per qualche tempo in quel microcosmo del carcere, ognuno trascinando la propria vita.
Sono nomi anche di operatori penitenziari. Quel mondo non fa distinzioni nè potrebbe farle, perché le sbarre ed i divieti, le mura ed i cancelli condizionano anche quanti siano giuridicamente “liberi” ma che lì, inevitabilmente, non lo saranno più. Talvolta, infatti, le loro storie si intersecheranno, dando vita ad un presepe vivente, che attende, molto probabilmente, l’avvento di una speranza condivisa“.
Insomma, raccontando di storie “fantastiche”, Enrico Sbriglia riferisce le criticità del sistema penitenziario e di quello giudiziario.
Di un sistema “giustizia” palla al piede per tutti, anche dei cittadini che si sentano “probi” perché sempre rispettosi delle leggi. E che, invece, affacciandosi anche solo come spettatori curiosi sul proscenio della giustizia, sentono crescere il timore e acquisicono la consapevolezza di quanto sia facile rimanere impigliati nell’ingranaggio inesorabile della macchina giudiziaria, dei suoi riti sacrificali e degli suoi esiti.
Inoltre, nel libro, sono rappresentate anche diverse figure criminali femminili, per ricordarci che il crimine, anche quello più sanguinario, non solo può essere “banale” ma che è anche “trasversale”.
È, infine, un libro che invoca, sussurrandola, la necessità di autentiche riforme del sistema giustizia e del sistema sanzionatorio, troppo spesso solo annunciate o private delle risorse umane e finanziarie necessarie e, già solo per questo, votate inesorabilmente al fallimento.
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Anna Losurdo
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