Stato interessante in stato di diritto

Stato interessante in stato di diritto

di Anna Frasca (Statistica – Componente dell’Osservatorio nazionale sulla parità di genere)

Cosa spinge le donne a non fare più figli?
Quali sono i motivi della decisione a non procreare, a non generare la vita?
Decisione, intenzione e desiderio della maternità hanno bisogno dell’esercizio e della disciplina dell’attenzione. E mentre penso che mi piacerebbe capire e approfondire, guardando il mondo che mi circonda, trovo tante belle e autorevoli voci che parlano, colorano, ognuna con proprio stile e prospettiva, con arte, poesia e studio i comportamenti sociali, economici e culturali alla base di quelle decisioni.

È l’intenzione che più mi affascina perché legata direttamente alla volontà nel decidere e compiere l’azione. Quella intenzione che prende forma in un tempo indietro, somma di tanti fattori personali e collettivi, di condizionamenti culturali, immutabilità nei ruoli, discriminazione delle persone in base ad una “normalità” che le esclude ad avere figli, promozione delle pari opportunità solo propagandistica che sfugge ai cambi strutturali per una conciliazione vita-lavoro effettiva.
È in questo processo in trasformazione, che avanza e arretra, e poi avanza grazie alle sentinelle per la salvaguardia dei diritti sacrosanti di tutte le donne, la scelta di procreare, di essere madre rappresenta un cammino quasi coraggioso verso un orizzonte nebuloso e scoraggiante.

L’incipit di Michela Murgia su “Dare vita”, pubblicato postumo nel 2024, è dirompente:

“Stato interessante. È un termine curioso. Da un lato sottintende che tutti gli stati di vita della donna che non implicano l’essere incinta siano privi di interesse. Dall’altro suggerisce che a quello specifico stato tutti e in particolare lo Stato dovrebbe prestare attenzione particolare”.

E da qui che mi piace partire, dallo stridente contrasto che la straordinaria Michela Murgia sapientemente ha sottolineato e che rappresenta un dono a cui attingere continua energia per abbattere il muro del pregiudizio, della discriminazione e dare vita ad un modello di maternità che è somma di legami di anima e di sangue.
L’attenzione particolare a cui ci si riferisce, però, lo Stato non la ammette e ne sono prova sia i dati ufficiali relativi ai tassi di fecondità, ai tassi di occupazione femminile, al numero di donne lavoratrici effettivamente tutelate, alle dimissioni dal lavoro e sia la percezione vissuta sulla pelle delle donne che vivono in questo nostro Stato, quando sono in Stato Interessante o desiderano esserlo anche oltre quello biologico.

Numerosi importanti studi approfondiscono la relazione tra uguaglianza di genere e fecondità, facendo emergere per esempio una correlazione diretta tra il numero medio di figli per donna e la quota di lavoro domestico svolta dagli uomini.
In particolare, nello studio “Carico domestico e intenzioni di fecondità delle donne italiane” presentato in Istat – 6 ottobre 2023 – “Un nuovo inizio? Fecondità e dinamiche familiari in Italia”, viene rappresentato (cfr grafico) che nei paesi in cui la quota di lavoro domestico maschile è ridotta il numero medio di figli per donna è basso (cfr. Giappone), mentre quando detta quota aumenta, anche il numero medio di figli aumenta (cfr. Danimarca e Svezia).

La ricerca conferma che l’Italia è ancora caratterizzata dalla persistenza del modello «male breadwinner», da una quota maggiore di tempo dedicato alla casa e alle faccende domestiche rispetto ad altri Paesi (elevato standard di comfort domestico?) (Anxo et al., 2011; Pailhè et al., 2019) nonché dalla scarsità di istituzioni e politiche di conciliazione lavoro-famiglia.

Mills, Mencarini, Tanturri e Begall (2008) hanno mostrato che in Italia l’ineguale divisione dei lavori domestici ha un impatto negativo sulle intenzioni di fecondità.
Esiste, quindi, una correlazione inversa tra il lavoro domestico e il desiderio di avere figli; in particolare l’impatto negativo dell’ineguale divisione del lavoro domestico sull’intenzione di fecondità è maggiore per le donne che hanno avuto già un figlio e nel caso in cui il carico domestico è superiore al 75%.
È stato valutato anche che il carico femminile maggiore ha un effetto depressivo sulle intenzioni riproduttive significativo e ancora più forte quando le donne lavorano.

È immediata la lettura della relazione statisticamente significativa tra intenzione alla fecondità e carico di lavoro domestico ed è stridente immaginare di incentivare la fecondità con “bonus bebè” da concedere al genitore per sopperire alla lacuna culturale esistente che attira, invece, una giusta e paritaria suddivisione dei lavori domestici all’interno dei nuclei familiari, una divisione equa dei compiti domestici, di cura dei bambini e di altri parenti. È di tutta evidenza che lo strumento economico non risolve questo tipo di problema che richiede un costante impegno economico pubblico sugli aspetti educativi e formativi.

Nella stessa presentazione, la direttrice centrale Istat Sabrina Prati – rappresenta che rispetto al 2001, sono aumentati i tassi di fecondità oltre i 30 anni, mentre continuano a diminuire tra le donne più giovani, riflettendo un progressivo rinvio della maternità che sembra peggiorare. La conseguenza è un forte calo della fecondità sotto i 30 anni solo in parte compensato in età più avanzata. Il rinvio protratto nel tempo si traduce spesso nella rinuncia definitiva ad avere figli.

L’Istat a novembre 2023 ha reso disponibile i dati sulla fecondità della popolazione residente sul data warehouse DEMO nel tema “Nascite e fecondità”, da cui ho potuto elaborare la seguente rappresentazione grafica:

Elaborazione su dati Istat

Il tasso di fecondità totale (TFT) esprime il numero medio di figli per donna in età feconda (15-49 anni).
In un’ottica generazionale il tasso di fecondità che assicura ad una popolazione la possibilità di riprodursi mantenendo costante la propria struttura è pari a 2,1 figli per donna.

Ma il calo delle nascite continua e come sottolinea l’Istat è ancora un record negativo per la natalità: nel 2022 le nascite scendono a 393mila, registrando un calo dell’1,7% sull’anno precedente.
La denatalità prosegue anche nel 2023: secondo i primi dati provvisori a gennaio-giugno le nascite sono circa 3.500 in meno rispetto allo stesso periodo del 2022. Il numero medio di figli per donna scende a 1,24 evidenziando una lieve flessione sul 2021 (1,25); la stima provvisoria elaborata sui primi 6 mesi del 2023 evidenzia una fecondità pari a 1,22 figli per donna.

Eccole, sono lì le donne, sono dietro questi numeri, da sole, con la decisione di non volere figli e quando, invece, coraggiose decidono di farli, altri numeri raccontano che abbandonano il lavoro.
I dati sulle dimissioni nel periodo della maternità o durante i primi 3 anni di vita del bambino mostrano un trend crescente. Il numero di dimissioni convalidate dall’Ispettorato del lavoro narra di mamme lavoratrici che si recano agli ispettorati per chiedere le proprie dimissioni in quanto non riescono a conciliare il lavoro con i tempi di vita.

Andamento convalide (2011-2022) per genere e totali (v.a.)

Rispetto al 2021, si assiste ad una crescita delle dimissioni del 17,1% corrispondente a 8.955 lavoratrici e lavoratori in più che si sono dimessi. Di questi, 7.037 sono riferiti a donne e 1.918 a uomini, rispettivamente un incremento per la componente femminile del 18,7% e per la componente maschile del 13% rispetto al precedente anno. Questo incremento però non riguarda tutte le tipologie di dimissioni. A crescere, infatti, sono solo le dimissioni volontarie (+20,1% totale), mentre calano del 39,8% le risoluzioni consensuali e del 29,4% le dimissioni per giusta causa.
(Relazione annuale sulle convalide delle dimissioni e risoluzioni consensuali delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri ai sensi dell’art. 55 del Decreto Legislativo 26 marzo 2001, n. 151 – Anno 2022 INL).

Nella Relazione annuale INL si legge che il modello di beneficiario di convalida, cioè di coloro che si dimettono, sembra essere “genitore di un figlio di età tra 0 e 1 anno, prevalentemente donna”, testimoniando come la fascia critica per restare nel mercato del lavoro sia proprio quella immediatamente dopo la maternità.

Eccole, sono lì le donne, dietro i numeri dell’Ispettorato del lavoro – 44.699 nel 2022, che per carenza o addirittura mancanza dei servizi pubblici e/o per mancata tutela escono dal mercato del lavoro e forse definitivamente. È la compensazione positiva che lo Stato di diritto incassa sullo Stato Interessante e sulla maternità, tutto a scapito delle donne che stanno vivendo un periodo particolarmente fragile della loro esistenza, non riuscendo da sole a conciliare vita e lavoro (cfr. Dettaglio motivazioni alla richiesta di recesso – focus conciliazione – convalide 2022 per genere).

Esaminando i dati pubblicati, un dubbio mi assale ma l’“assenza parenti di supporto” è una corretta identificazione della motivazione? Che informazione utile è questa? La percentuale del 72,6% non è forse spostare il problema della mancanza dei servizi pubblici sul sistema parentale? In uno Stato di Diritto i nonni e le nonne sono “sostituti” del servizio pubblico per consentire alle mamme di lavorare?

Il proverbio africano citato da Papa Francesco e Michela Murgia è chiaro e potente:

per far crescere un bambino ci vuole un villaggio

È una comunità intera che si deve prendere cura, è lo Stato di Diritto che deve farsi carico delle difficoltà per sostenere, attraverso politiche di welfare, l’applicazione delle norme antidiscriminatorie e della promozione della cultura paritaria.

E se i numeri parlano di una donna lasciata sola nella scelta, dove il “villaggio” scompare, capita di vedere film che fanno di questa rappresentazione una colorazione altrettanto realistica.

Nel 2020 esce un film “Figli”, progetto cinematografico accolto positivamente dalla critica e apprezzate la regia, la sceneggiatura e l’interpretazione attoriali di Paola Cortellesi e Valerio Mastandrea.

La penna di Mattia Torre rappresenta in maniera spregiudicata gli umori di una generazione di quarantenni alle prese con i disagi di un paese vecchio e arrugginito, che si trova ad accogliere la decisione di diventare genitori. Sara e Nicola sposati con una bambina di 6 anni e una vita felice, e con l’arrivo del secondo figlio, che ne scombinerà gli equilibri e ne tormenterà le notti, mostrano come nel nostro Paese l’immagine della madre si riconduce all’idea che una donna debba rinunciare a tutto per i figli.

E colpisce come l’intreccio tra arte, studi e ricerche convergano verso una visione concreta del disagio dell’essere mamma lavoratrice che è avvertita come una “cosa difettosa” in questo Stato.

Il pensiero della protagonista Sara: Io penso che se in Italia c’è la crescita zero ci sta un motivo mi piace accostarlo ad una affermazione “E le donne italiane ricominceranno a dare la vita quando per farla venire al mondo e crescerla non sarà più necessario amputare la propria” (M. Murgia).

Credits: Gabrielli da Pixabay

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