Suicidi in carcere: un caso di scuola

Suicidi in carcere: un caso di scuola

di Enrico Sbriglia (Presidente dell’Osservatorio Internazionale sulla Legalità di Trieste – Penitenziarista)

Quanto di terribile è accaduto, nei giorni scorsi, presso la Casa Circondariale “Lorusso e Cotugno” di Torino, dove hanno trovato la morte due detenute, una pare suicidatasi, l’altra sembrerebbe deceduta, con la formula di rito, per “cause naturali”, ma che potrebbero essere riconducibili al fatto che rifiutasse, da diversi giorni, di alimentarsi, sono la dimostrazione plastica e drammatica che c’è più di qualcosa che non funzioni nel nostro sistema penitenziario.

Come al solito, al cospetto di tali notizie, in tanti (oppure no ?!) ne rimarranno scandalizzati ed inizierà la liturgica ricerca delle responsabilità, seppure, poi, difficilmente si perverrà a incontrovertibili risultati: insomma, si tratta di un film già visto.

Però la vicenda consente di ripercorrere dei tratti della mia vita trascorsa, allorquando operavo all’interno delle carceri, sempre che ciò possa in qualche modo essere d’utilità al fine di comprendere come, in realtà, sia complessa e difficile la vita non solo delle persone detenute, ma anche di quella “detenenti”.

Numerose volte, infatti, mi sono imbattuto in situazioni analoghe, che mettevano in luce il meglio ed il peggio della istituzione penitenziaria, ed ho avuto, diciamolo, anche fortuna.
Ma essa non era casuale, bensì il frutto di un lavorio collettivo tra tutti gli operatori penitenziari e quanti, del mondo della Sanità, riuscivo a coinvolgere, pure, semmai, usando modi non proprio diplomatici che contemplavano, in caso di indifferenza, la minaccia di segnalare quelle che sarebbero potute apparirmi delle eventuali omissioni, lasciando all’A.G. l’onere della valutazione concreta; ma anche con le diverse magistrature, inquirente, di cognizione, della sorveglianza, il lavorio era intenso e i rapporti costanti e, forse, in taluni casi, sarò perfino apparso tedioso, ma ogni prudenza era d’obbligo.

Di fronte ad un atteggiamento di rifiuto serio di assumere il cibo da parte della persona detenuta, indicevo subito una riunione di servizio con il Comandante del Reparto, l’Educatore Coordinatore dell’area trattamentale, con lo psicologo dell’azienda sanitaria oppure con l’esperto psicologo del carcere con il quale c’era un rapporto di lavoro libero-professionale, con il medico incaricato che coordinava i servizi sanitari, coinvolgendo anche il Cappellano; alla riunione partecipavano pure il sottufficiale della polizia penitenziaria responsabile della sorveglianza dello specifico reparto, maschile o femminile che fosse e, se del caso, anche quegli agenti che sapevo fossero in grado più di altre di costruire una relazione con le persone ristrette. Partecipava anche il responsabile della matricola, al fine di aggiornarci sulla posizione giuridica complessiva.

Il medico faceva il punto della situazione sul piano sanitario e sulla effettività di un rischio possibile da parte della persona detenuta che manifestava l’astensione dell’assunzione del cibo, se non anche di ogni liquido (circostanza questa solitamente più allarmante).

È capitato, perciò, anche con le detenute. La persona ristretta, di default, veniva posta a grande sorveglianza; formula quest’ultima che, in verità, vuole dire tutto o niente, in quanto andava declinata in precisi e chiari adempimenti che il personale di polizia, ma anche gli altri operatori, avrebbero dovuto assicurare.

Solitamente si escludeva la cosiddetta “sorveglianza a vista”, perché questo avrebbe significato di dover impiegare una unità di polizia che controllasse visivamente, senza alcuna soluzione di sorta, la persona ristretta, in quanto misura dispendiosa sul piano delle risorse umane da impegnare (in una giornata lavorativa “tipo”, avrebbe significato impiegare almeno 4 agenti, con turni individuali di sei ore ciascuno, e di dover anche disporre di un’altra poliziotta che effettuasse almeno “due cambi”, per consentire il tempo della consumazione del pasto e della cena alle colleghe che sorvegliassero a vista la detenuta, ma anche perché fosse alle stesse consentito di recarsi al bagno, ove ne avessero necessità).

Comprenderete, quindi, come sarebbe risultato particolarmente esoso l’impiego di risorse umane per una sola persona ristretta.

Nel corso della riunione si stabiliva l’avvio di tutta una serie di colloqui, tête-à-tête, degli operatori dell’area trattamentale con la donna, ancor di più ove la stessa manifestasse insofferenza a tenerli: essa sarebbe stata chiamata, fatta accomodare innanzi all’operatore e quest’ultimo le avrebbe parlato provando a stimolare delle reazioni, delle risposte. Ove invece non fosse stata in grado di muoversi, perché debilitata, sarebbero stati loro a recarsi presso di lei, ma comunque i colloqui dovevano essere svolti e occorreva vederla da vicino.

I colloqui venivano tenuti anche dallo stesso Comandante di reparto e si aggiungevano a quelli, di tipo apparentemente informale, delle agenti in servizio nel reparto femminile.

Tutte le attività venivano annotate, seppure in forma sintetica.

Ogni giorno, e talvolta anche per più volte al giorno, la detenuta veniva visitata dal medico e ogni dato veniva riportato in cartella; veniva pesata e si registravano i valori pressori del sangue, nonché le si chiedeva il consenso per sottoporsi a dei prelievi ematici; veniva effettuato anche l’esame delle urine: faccio notare che sia la misurazione della pressione che l’esame delle urine non costituivano atti invasivi, come ad esempio il prelievo ematico, ma dando vita ad un rapporto dialogico, si riusciva ad ottenere di regola anche quell’accordo.

Pure io effettuavo numerosi e lunghi colloqui con la ristretta, idem il cappellano che coinvolgevo, il quale, semmai, avrebbe chiesto l’aiuto di altro ministro di culto nel caso che la donna non fosse cristiana: anche tra i rappresentanti delle diverse sensibilità religiose, infatti, si instaurano sentimenti di solidarietà e di reciproco aiuto.

I colloqui non dovevano per forza vertere sul suo rifiuto ad alimentarsi, ma potevano spaziare su tante altre cose, non necessariamente afferenti le vicende penali e processuali, anzi, era preferibile semmai solo sfiorarle, per far sì che fosse semmai la detenuta a parlarne; in tal modo si cercava di addentrarsi “nella sua storia” e farle comprendere che per noi lei non era “invisibile”, che la vedevamo.

La nostra attenzione e l’insistenza non erano dettate da una volontà “missionaria” (seppure questa, francamente, non sarebbe cosa cattiva e rientrerebbe, cum grano salis, nella mission istituzionale), bensì da bisogni concreti e pratici di natura amministrativa, onde non minacciare la già difficile organizzazione del lavoro penitenziario, favorendo ulteriori criticità il cui esito sarebbe stato sempre una incognita.

Seguendo tutti i giorni la persona detenuta, si riusciva, tra l’altro, a comprendere se ci si trovasse di fronte ad una artata postura, per quanto comunque capace di recare danni psico-fisici anche irreversibili alla stessa. Inoltre si sarebbero potuto cogliere informazioni utili anche al fine di una eventuale riflessione sulla sua storia, processuale e penale.

Per questo motivo, informavamo puntualmente l’Autorità Giudiziaria competente.

Era un lavoro difficile, di cesello, ma certamente molto più facile d’affrontare rispetto alle conseguenze negative che sarebbero potute derivare ove non l’avessimo fatto.

Il medico, infatti, piano piano, cercava di convincerla ad assumere almeno degli integratori e dei farmaci che non la ponessero in una situazione di maggiore pericolo, e tutti gli operatori provavano a farle sentire una vicinanza umana.

Bontà ? mah, in verità anche freddo calcolo: se le condizioni della detenuta, infatti, fossero peggiorate, sarebbe stato necessario disporne l’invio in ospedale, il che significava una ulteriore emorragia di personale di sorveglianza, in quanto almeno due dovevano essere le unità da impiegare in ogni turno di servizio di sei ore, quindi una giornata tipo avrebbe impegnato almeno otto unità, al fine di coprire i quattro turni di servizio, più un’altra unità sarebbe dovuta essere disponibile per i cosiddetti “cambi”, per consentire agli agenti turnisti la consumazione dei pasti. Inoltre occorreva assicurare l’accompagnamento in ospedale con il furgone attrezzato o con l’ambulanza, pure scortata dalla polizia penitenziaria, quindi altro personale da impegnare, in una situazione contrassegnata sempre da gravissime carenze di personale all’interno del carcere, aggravate durante i periodi delle festività e nelle domeniche.
Emorragia vera di uomini e donne del Corpo della Polizia Penitenziaria, seppure di sangue lavorativo.

E se poi la persona detenuta fosse morta in carcere, ulteriori faticose e frenetiche attività avrebbero dovuto essere espletate, mettendo in conto che poi ci sarebbe stata certamente un’ispezione amministrativa, che avrebbe impegnato la direzione ed il comando, nonché tutti gli altri uffici, per altri giorni, con audizioni, verbalizzazioni, ricognizioni, tensioni, etc. etc., distraendo ulteriormente le poche risorse umane disponibili.

Insomma, francamente, era più utile e comodo, oltre che professionalmente dovuto, fare il tutto possibile perché la situazione non sfuggisse di mano in modo drammatico.
Anche le autorità giudiziarie lo comprendevano e non era raro che gli stessi magistrati venissero a parlare con la detenuta, sia per aiutarci che per accertare personalmente come le cose stessero realmente. È evidente che, in quei frangenti, non ci rendevamo conto se le nostre giornate fossero quelle festive o meno, se le ore di lavoro fossero diurne o serali, ma andava fatto, per stare tutti più tranquilli, o meglio per soffrire di meno.

Questo modo di lavorare, assolutamente non straordinario, ma “di necessità virtù”, posso dire che ha funzionato per davvero, seppure poteva essere estenuante e non compreso da tanti, perfino da mia moglie e dai miei figli, che non accettavano l’idea che sacrificassi il mio tempo per cercare di convincere una persona detenuta a desistere dal prosieguo di una protesta che, altrimenti, nessuno avrebbe sentito o capito.
Lavorando così, io ed i miei collaboratori, abbiamo, in verità, evitato tante grane, ed oggi posso parlarne tirando un sospiro di sollievo che fa bene anche alla mia coscienza, tornando ad esprimere riconoscenza verso quelle donne e quegli uomini con i quali ho lavorato a lungo.

In tutti gli anni in cui ho operato come direttore penitenziario, in un carcere letteralmente di frontiera, che prima di altri aveva conosciuto i fenomeni migratori, l’esodo di donne e uomini fuggiti da paesi in guerra, oppure perché v’erano teocrazie o regimi illiberali, in un carcere che era una sorta di melting-pot di religioni, colori della pelle, costumi e lingue, pochissimi sono stati i casi in cui la situazione ci è sfuggita di mano e una sola detenuta si è suicidata con modalità tali che sorpresero tutti gli operatori.

Era una donna bellissima, di origine slava, accusata di avere tentato di uccidere le figlie minorenni impiegando delle forbici; dietro quell’azione tremenda c’era una storia di famiglia dai contorni opachi dove sia la donna, separata e convivente con un altro uomo, che le figliole ne erano probabilmente anche vittime.
La donna chiese di fare una doccia, e fu accontentata, dopodiché chiese che l’agente di turno le offrisse una sigaretta che accese quest’ultima, in quanto alla detenuta non era stato consentito, per motivi precauzionali, di avere con sé l’accendino.
Il blindato era chiuso, l’agente controllava di tanto in tanto la detenuta dallo spioncino, scambiando qualche parola di cortesia; la donna sembrava finalmente tranquilla…trascorsero altri minuti e si sentì il rumore di uno sgabello che cadeva per terra, l’agente aprì lo spioncino e la vide appesa alla cassetta dello scarico del water (all’epoca erano esterni ed in alto, non incassati a filo sul muro), la donna per uccidersi aveva impiegato uno dei pochi indumenti che le avevano consentito di tenere, il collant, stringendoselo al collo e annodando il capo dell’indumento allo scarico, salendo sullo sgabello in dotazione che poi aveva fatto cadere.

Il collant è micidiale, diventa una sorta di filo tagliente e resistente che strozza e penetra anche l’epidermide del collo della malcapitata. Le agenti mi avvertirono immediatamente, mentre stavo trattando una questione con il Comandante. Entrambi ci precipitammo nella sezione femminile, al terzo piano, salendo le scale di corsa, mentre attendevamo i soccorsi del 118; la donna perdeva sangue dalla bocca e ciononostante il Comandante provò a farle la respirazione bocca a bocca senza neanche utilizzare un fazzoletto o una garza, ma la donna spirò ugualmente.

Nei giorni successivi facemmo un de-briefing cercando di capire perché non fossimo stati in grado di captare la disperazione di quella donna i cui segnali di disagio non eravamo riusciti a comprendere: l’abluzione alla quale si era sottoposta aveva quasi un significato simbolico, forse voleva mettere a disposizione di chi l’avrebbe ricomposta un corpo pulito, le donne, si sa, ci tengono; il fumare la sigaretta era stato il suo ultimo momento di coinvolgimento con le cose della vita.

Non lasciò alcun messaggio.
Grande fu la commozione tra tutte le agenti, molte di loro madri e capaci di capire l’indicibile.

Chiudo allegando alcuni disegni che mi furono donati da una detenuta anch’essa problematica, ma tutti noi, in verità, probabilmente lo siamo.
Sono disegni che parlano di libertà e uno, quello dell’albero senza foglie, di un dolore senza rinascita, per quanto la pianta abbia radici profonde.


Di Enrico Sbriglia, su Ora Legale News

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