
Cariche elettive e parità di genere in Costituzione
di Michele Belletti (Professore Ordinario di Istituzioni di Diritto Pubblico – Uni Bologna)
Tra la fine dell’800 e gli inizi del 900, quando diventò pressante il tema dell’allargamento del suffragio elettorale in Italia non mancava chi, come l’autorevole giurista Gaetano Mosca, nel pieno di quel dibattito politico-istituzionale, si interrogava sulle ragioni dell’estensione del diritto di voto alle donne. E sosteneva che vi sarebbe sempre stato un padre, un marito o un fratello che avrebbe potuto esprimere anche l’opinione politica di qualsiasi donna.
Agli inizi del nuovo secolo si fece sempre più pressante la consapevolezza che le strutture “elitarie” dello Stato liberale sarebbero state travolte dall’avvento delle masse. Così, nel 1906, un corposo gruppo di donne, in varie città d’Italia, si iscrisse nelle liste elettorali, ma anche questo tentativo tramontò a fronte delle pronunce dei Tribunali aditi sulla questione.
Ancora una volta, Gaetano Mosca ebbe a criticare questa iniziativa, sostenendo che la mancanza di divieto esplicito non poteva valere come possibilità di votare. Ma soprattutto rilevava che la richiesta di partecipazione politica non poteva coincidere con il mancato rispetto del principio della separazione dei poteri.
Ovvero, solo il legislatore avrebbe potuto estendere alle donne il suffragio, non già i giudici.
Così, la legge 30 giugno 1912, n. 666 introdusse il suffragio universale, ma solo maschile, senza alcun limite per chi avesse più di 30 anni, con i precedenti limiti di censo e di istruzione per i maggiorenni con meno di 30 anni.
Come è noto, l’universalità del suffragio, maschile e femminile si ebbe solo in occasione del referendum istituzionale del 2 giugno 1946, in occasione del quale vennero anche eletti i membri dell’Assemblea Costituente.
È noto che l’estensione al suffragio femminile fu anche la conseguenza di calcoli politici, in particolare dei monarchici che presumevano che quel voto potesse essere in larga misura filo-monarchico.
Tuttavia, è indubbio che quello fu il vero punto di svolta con riferimento al tema della parità di genere, poiché mise in moto un processo costituente, caratterizzato da forti elementi di precettività che contribuì ad assicurare non solo formale, ma anche sostanziale eguaglianza tra i sessi.
Le donne elette in Costituente furono soltanto 21 su 556 deputati; 9 erano della Democrazia cristiana, 9 del Partito comunista, 2 del Partito socialista e 1 dell’Uomo qualunque.
Tra queste vi erano figure come Leonilde Iotti, Angelina Livia Merlin, Teresa Mattei.
Nonostante l’esiguità del numero, il loro ruolo fu fondamentale proprio a tutela della condizione femminile, in particolare nel battersi affinché non venisse posto il divieto in Costituzione per l’accesso delle donne alle cariche pubbliche in generale e in magistratura in particolare.
Come è noto, infatti, fu stabilito all’art. 51 Cost. l’accesso in condizioni di parità tra i sessi agli uffici pubblici e alle cariche elettive. Rimaneva, però, il divieto legislativo per le donne di ingresso nella magistratura, ai sensi della legge 1176/1919, divieto superato solo nel 1963 con la legge n. 66.
La condizione delle donne viene presa in considerazione in numerosi articoli della Costituzione, non solo nell’art. 51, che verrà ulteriormente integrato nel 2003 con la precisazione per cui “la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”.
Analoga precisazione viene introdotta nel 2001 all’art. 117, secondo il quale “Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive”.
Si pensi all’art. 37 in tema di eguaglianza di diritti e retribuzione per la donna lavoratrice, ma soprattutto si pensi alla lungimiranza e all’attualità dell’art. 29, che stabilisce nella famiglia l’eguaglianza morale e giuridica tra i coniugi, allora di fatto non esistente, ma che divenne presto realtà giuridica proprio in forza della precettività di quella previsione costituzionale.
Precettività della Costituzione in punto di parità di genere che si è fatta valere in ogni ambito, contribuendo non solo a modificare le discipline normative, ma anche a creare una sempre maggiore consapevolezza sul tema.
Così, in tema di parità di accesso alle cariche elettive, seppur con un percorso lungo e non poco tormentato, la precettività delle norme costituzionali non ha mancato di manifestarsi chiaramente.
In un primo momento, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 422 del 1995, dichiarava la incostituzionalità della previsione della legge 81 del 1993 che prevedeva che nelle liste elettorali nessuno dei due sessi potesse essere rappresentato nella misura superiore ai due terzi.
La Corte sosteneva che quella non fosse un’azione positiva in quanto non predisponeva i mezzi per raggiungere un risultato, ma perseguiva essa stessa il risultato.
Dopo questo primo passaggio, si registrano invece una serie di interventi della Corte costituzionale tutti nel senso della valorizzazione della parità di genere.
Nel frattempo era stato integrato l’art. 51 Cost. ed era stato modificato l’art. 117 Cost. nel senso sopra precisato.
Così, con la sentenza 49 del 2003 la Corte salva la norma della Regione Valle D’Aosta a tenore della quale nelle liste devono essere presenti candidati di entrambi i sessi.
È da questo momento che diviene veramente effettiva la parità di genere nelle cariche elettive.
La Regione Campania fa da apripista, introducendo nella legge elettorale regionale la preferenza di genere, la doppia preferenza, ma di genere diverso, che viene fatta salva dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 4 del 2010.
Così, venendo alle leggi elettorali nazionali, mentre la parità di genere non veniva adeguatamente garantita dalla legge 270 del 2005 (legge Calderoli), veniva invece efficacemente garantita dalla legge 52 del 2015 (c.d. Italicum), che prevedeva l’alternanza di genere nelle liste bloccate e che nessun genere potesse essere rappresentato nella misura superiore al 60% come capolista.
Analogamente, la legge 165 del 2017 (legge Rosato) garantisce l’alternanza di genere nelle liste bloccate e che nessun sesso possa essere rappresentato in misura superiore al 60% nei collegi uninominali e come capilista delle liste bloccate.
Nel frattempo, nelle Giunte regionali e comunali si facevano strada donne che azionavano gli Statuti di quegli enti che proclamavano l’eguaglianza di genere, ma non la mettevano in atto in sede di nomina.
E ciò grazie all’intervento della Corte costituzionale che, con la sentenza 81 del 2012 ha precisato che se si stabilisce quel principio nello Statuto, poi lo si deve osservare in occasione della nomina delle Giunte.
La strada è sicuramente ancora lunga, ma la forma della proclamazione del principio diviene sempre più sostanza dell’effettività della parità di genere.
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