
Auguri in carcere
di Enrico Sbriglia (Penitenziarista – Former dirigente generale dell’Amministrazione Penitenziaria Italiana Presidente Onorario del CESP (Centro Europeo di Studi Penitenziari) di Roma – Componente dell’Osservatorio Regionale Antimafia del Friuli Venezia Giulia)
Ricordi, ricordi dei miei Natali in carcere; inevitabile che in queste giornate mi venga da pensarci.
Avevo un metodo tutto mio all’epoca, che probabilmente era comune a tanti direttori penitenziari, di vivere quelle giornate speciali.
Eh sì, quelle sono delle giornate diverse, anche in carcere, nelle quali imponevo a me stesso, simulandolo verso il personale tutto e, soprattutto nei riguardi delle persone detenute, la mia massima tranquillità, mentre in cuore, invece, divampava intensa la fiamma della preoccupazione: che potessero intraprendersi delle rivolte, che scoppiassero, che ci fossero delle violenze, che si verificassero degli autolesionismi o dei suicidi, cose queste che non era assolutamente detto potessero riguardare necessariamente i ristretti.
Ma poi, grazie al Cielo, le preoccupazioni venivano travolte dai ricorrenti più banali problemi i quali, come un malvagio esattore, si presentavano puntualmente in quelle giornate: il “blocco liturgico” degli impianti di riscaldamento, che servivano sia la Caserma degli Agenti che le Sezioni detentive (guasti inevitabili, dovuti ad una manutenzione approssimativa e domestica, perché eravamo sempre a corto di fondi), oppure la rottura di qualche tubazione idraulica che, chissà perché, nel Nord d’Italia è cosa frequente, soprattutto quando le temperature esterne vanno sotto zero e l’acqua si ghiaccia… Bazzecole, dopotutto, perché i detenuti e gli agenti capivano le mie difficoltà e, al di là di qualche blando borbottio, apprezzavano lo sforzo compiuto da tutti i miei collaboratori e dai detenuti lavoranti per sanare, alla meno peggio, le défaillance.
Poi, con la scusa di porgere gli auguri, nella serata dell’Avvento, mentre mia moglie era occupata a tenere a bada i ragazzi che volevano anticipare il cenone e lamentavano la mia consueta assenza, entravo in istituto, accompagnato dal mio leale Comandante della Polizia Penitenziaria, stringendo mani come segno di saluto e, spesso ricevendo abbracci sia da parte degli agenti che erano in servizio in quella serata magica (spesso erano i più giovani e lontani dalle loro famiglie, perché di regola meridionali, sardi e siciliani) sia dagli stessi detenuti, ci scambiavamo gli auguri.
Il Cappellano, Gesuita rigoroso e generoso insieme, che ci accompagnava nel tour, distribuiva benedizioni a gogò, ben accette pure dai Muslim e dagli Indù: dopotutto nessuno è mai morto per troppe benedizioni.
Con la scusa di porgere gli auguri, però, gettavo l’occhio sui detenuti più problematici, ma senza darlo a vedere, perché, talvolta, uno sguardo insistente o una parola di troppo avrebbero potuto, paradossalmente, nuocere; altra cosa era se, invece, loro stessi avessero mostrato interesse ad un dialogo; circostanza questa che, di regola, avveniva.
In ogni sezione c’era un albero di Natale e un piccolo presepe, modeste palline di plastica (il vetro era meglio evitarlo) e qualche luce intermittente. I personaggi del presepe erano di regola realizzati dagli stessi detenuti, presso i laboratori di ceramica.
C’era anche il profumo di pasta frolla e di pizza, perché facevamo coincidere proprio in quelle giornate le prove finali dei corsi di pasticceria e panetteria, consentendo che i corsisti portassero fieramente in tutte le stanze detentive le loro lavorazioni.
Nella Sezione Femminile, l’ambiente era obiettivamente più curato e grazioso. Si sa, le donne sono precise.
In quelle giornate mi preoccupavo di far pervenire ai detenuti qualche soldo, attraverso i pochi fondi che disponevo come sussidi per i detenuti, affinché potessero effettuare una qualche telefonata a casa o per comprare qualche giocattolo ai figli, da consegnare nel corso dei colloqui…
Poi arrivavano i panettoni del Sindaco e dei doni da parte di tanti cittadini.
Una volta, un signora, moglie di un facoltoso medico, ci fece pervenire un Camioncino pieno di ciambelle per le tazze del bagno, avendo letto che mi ero lamentato del fatto che non avessi i fondi necessari per acquistarli. Erano tante, credo che quelle ciambelle le abbiano ancora.
Insomma, si faceva tanto e di più, perché anche le persone comuni ci erano vicine.
A tutti, anche a quelli che non sarebbero mai usciti, auguravo la libertà, almeno quella interiore.
Terminata la visita, e raccomandato a tutti gli agenti, agli infermieri, al medico, di rimanere “vigili”, rientravo a finalmente a casa, nell’alloggio di servizio.
Qualunque cosa mia moglie avesse preparato, sarebbe stata buonissima, perché quando hai la bocca amara, anche una piccola scaglia di cioccolato sembra una torta.
Di Enrico Sbriglia, su Ora Legale News
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