
Uscire dal tunnel
di Tiziana Nuzzo (Avvocata in Bari)
Per ventisei anni i tossicodipendenti hanno fatto parte della mia vita. Erano, la mia vita.
Tanti, erano tanti. Furti, rapine, prostituzione, estorsione. Spaccio. Un po’ di tutto.
Pur di riuscire ad acquistare una sola dose di eroina o cocaina. Diventano altro da sé stessi.
Le madri di questi ragazzi (erano tutti giovanissimi) raccontavano di non avere più un mobile sano in casa. Sfasciavano tutto. Erano disposti a tutto.
Ma uscire dal tunnel no, era fuori discussione.
Il tunnel rappresentava la loro nuova casa. La protezione, la sicurezza.
In quel buio senza fine l’anestesia dei sentimenti e dei sensi, quelli che fanno più male, era garantita.
Fuori, in quel mondo “normale” che poi tanto normale non era, non c’era posto per loro. Qualcuno, solo qualcuno invece, dal tunnel voleva uscirne. Con tutto sé stesso.
Ma tra volere e potere scorre un mare in tempesta.
Tra un’udienza e l’altra, nei momenti di lucidità, i ragazzi mi regalavano frammenti acuminati della loro vita.
“Mi hanno legato in cantina, per non farmi uscire. Mia madre e mio padre, d’accordo. Anche con me. Ma non ce la faccio. Ho dolore ovunque. Sono a pezzi, non ce la faccio. E se ce la faccio so che ci ricasco“.
Non c’erano solo i processi, le sentenze, i testimoni, le prove, i rappresentanti della Pubblica Accusa, le condanne, le sbarre, tra noi.
Io volevo fare di più. Volevo capire. Volevo riuscire aiutare anche solo un giovane. Uno solo. Parlavamo, tanto.
Non è vero che fossero tutti figli di genitori disastrati. Poveri. Ignoranti. Emarginati.
Tra loro anche molti insospettabili. Figli di famiglie benestanti. Colte. Perbene. Eppure.
Eppure la Bianca Signora non guarda in faccia nessuno.
E se decide di diventare il tuo sangue, lo diventa. Lo succhia ed entra Lei. Nelle tue vene. Nella tua anima. Nella tua testa. Nella tua vita.
Di fronte al mio studio di allora c’era il Sert.
Faceva paura anche solo a guardarlo.
Muri sporchi. E sui muri pedate. Disegni deformi. Spade. Parolacce. Sangue che colava dai muri. Sangue disegnato ma di quello vero ne conservava l’odore.
Perché il sangue ce l’ha, un odore. Forte, pungente.
Ti stordisce al punto che non lo dimentichi più.
Tutto c’era, su quegli orribili muri.
Il portone pesante, di legno scuro. Le scale e poi quella stanza. Lunga, fredda.
Due persone col camice bianco. Una scrivania in ferro.
E poi metadone, metadone ovunque.
Sa di limone, il metadone. Ma a parte il profumo con questo frutto color del sole non ha nulla a che fare.
L’affidatario prendeva in consegna le boccette. Quanto necessario per qualche settimana.
E poi erano cavoli della famiglia, del tossicodipendente, di tutto il mondo intorno, insomma.
Scappavano. Solo qualcuno seguiva la psicoterapia. Gli altri la sparavano a vista.
In studio da me rimanevano per ore, i ragazzi.
Tornavo a casa stanca.
Avevo la nausea per il mal di testa.
Qualcuno ce l’ha fatta. Molti altri, no.
Il circuito penale li divorava. L’indifferenza li divorava. Il mondo là fuori, li divorava.
Reietti, questo erano. Per tutti.
Fuori dal carcere era peggio di prima. Dentro, era peggio di prima.
Chi si è salvato oggi lavora. Ha messo su famiglia. Ha completato gli studi.
“Avvoca’, questo è mio figlio.“
Me lo mettevano in braccio, il figlio.
“A lui voglio dar quello che io non ho avuto. La possibilità di studiare. Ma voglio che dipinga, come me. Una cosa l’ho capita. Quando dipingevo stavo meglio. Se lavoravo stavo meglio. Ecco io… avvocato… voglio togliergli il vuoto.”
È stato allora, tanti anni fa, che sentii per la prima volta quella frase.
“Una maniglia in mezzo al cielo“.
Cercavano questo, i miei ragazzi.
Da allora, tutte le volte che ho potuto, quella maniglia ho cercato di fargliela prendere io. Scostando le nuvole, prendendole a botte, se necessario. Dietro, il sole.
Quello che spesso i magistrati non riuscivano a intravedere nella vita di questi giovani.
Di Tiziana Nuzzo, su Ora Legale News
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