
La parola in difesa
“MANIFESTO – 40 ASSIOMI SULLA PAROLA IN DIFESA”
di Iacopo Benevieri (Avvocato in Roma, Responsabile della Commissione sulla linguistica giudiziaria della Camera Penale di Roma)
Il 30 ottobre 2020 la Commissione sulla linguistica giudiziaria della Camera Penale di Roma ha presentato il “Manifesto – 40 assiomi sulla parola indifesa“.
Per introdurre il contenuto e le ragioni del “Manifesto” si potrebbe partire dal noto romanzo “Il nome della rosa“.
Nel quinto capitolo si narra di un interrogatorio, condotto nel novembre del 1327 dal vescovo inquisitore Bernardo Gui contro un monaco sospettato di eresia, tale Remigio da Varagine. Umberto Eco descrive con rigore filologico lo scambio di domande e di risposte tra i due.
Leggendo questo capitolo notiamo che nel processo inquisitorio veniva realizzato un vero e proprio controllo sulla parola del malcapitato. L’interrogatorio, per esempio, vedeva un forte sbilanciamento tra lo spazio occupato dalle parole dell’inquisitore e quello riservato alle risposte dell’interrogato: ampio il primo, ridotto il secondo.
L’inquisitore inoltre ricorreva spesso a domande suggestive o addirittura nocive: quelle di Bernardo Gui, per esempio, sono assertive, presuppongono dati falsi per indurre in errore, sono formulate in modo che l’interrogato risponda “sì” o “no”. A tali domande, infatti, l’imputato Remigio fornisce risposte brevi, confermando l’informazione contenuta nella domanda. Quindi la parola di Remigio, rispetto a quella di Bernardo Gui, è una parola contratta, degradata.
Proseguendo nella lettura del capitolo apprendiamo inoltre che le parole dell’imputato venivano sì verbalizzate, ma in modo sommario: l’interrogato rispondeva usando l’unica lingua conosciuta (il volgare) e il giudice inquisitore dettava la risposta a verbale, riformulandola a piacimento e traducendola in lingua latina, una lingua segreta, sconosciuta ai più.
In questo spietato rituale possiamo misurare dunque quale fosse il destino della parola dell’interrogato: non solo essa era sollecitata, suggerita, condizionata, ma all’atto della verbalizzazione veniva completamente trasformata in altro.
Nel processo inquisitorio, dunque, era la parola stessa a esser processata senza alcun controllo.
Con un salto nel tempo e nello spazio giungiamo a Roma il giorno 19 maggio 2020, quando la IV Sezione Penale della Corte di Cassazione ha depositato una sentenza (n. 15331), con la quale ha affermato che il giudice non può formulare domande suggestive.
In particolare la Cassazione ha evidenziato come le domande formulate alla persona offesa dai giudici di secondo grado contenessero informazioni che condizionavano la risposta e fossero costruite in modo da indurre la persona interrogata rispondere solo “sì” o “no”.
Un po’ com’era accaduto nel 1327 a Remigio da Varagine.
Certo l’accostamento è provocatorio e audace, ma forse è utile per chiarire l’urgenza del “Manifesto” sulla linguistica giudiziaria.
Il Manifesto è la risposta a una constatazione: oggi le condizioni di salute della parola nel processo penale sono precarie non meno di quanto non lo fossero nel 1327, poiché ancora oggi essa subisce un controllo che ricorda talune pratiche del processo inquisitorio.
Sappiamo, per esempio, che nelle trascrizioni delle intercettazioni telefoniche spesso si annidano gravi errori e omissioni, con la conseguenza che l’originaria parola pronunciata e intercettata non viene fedelmente riportata.
Sappiamo, inoltre, che nelle indagini preliminari le dichiarazioni rese da testimoni e indagati vengono verbalizzate in modo sommario e vengono tradotte in “burocratese”, un linguaggio non meno segreto del latino. Quante volte leggiamo nei verbali quell’antilingua caratterizzata da parole come “utenza telefonica” anziché “telefono”, “recarsi” anziché “andare”, “ubicarsi” anziché “trovarsi”.
Siamo consapevoli inoltre che alcuni “formati” di domanda possono condizionare il contenuto delle risposte.
Talvolta la suggestione può risiedere in una particella avversativa, in un vocabolo, nel tono, in una pausa. Tuttavia, sappiamo anche che, secondo una ricerca del 2003, queste forme “suggestive” ricorrono almeno nel 56% delle audizioni di un minore, che ha scarse competenze per difendersi dal condizionamento.
Queste sono soltanto alcune delle forme con le quali nel processo penale la parola è strumento di potere, di un potere spesso invisibile (una “microfisica” del potere, per dirla con Foucault).
Dunque, il punto intorno al quale si orienta tutto il Manifesto è uno: la parola, nel processo penale, presenta una doppia natura perché è strumento di potere (talvolta di prepotenza), ma anche matrice di ogni altra garanzia processuale.
L’art. 111 della Costituzione infatti prevede che ogni processo sia celebrato nel “contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità“. Ciò significa che abbiamo abbandonato la civiltà della vendetta e dei processi sommari, per sostituirla con una civiltà nella quale un reato viene accertato tramite il confronto di parole, di argomenti, di narrazioni.
Il processo penale, dunque, è una “Civiltà di Parole“, per usare un’espressione cara a Giacomo Devoto e Patrizia Bellucci, due insigni linguisti.
In ogni processo penale, dunque, i diritti del singolo dipendono dai meccanismi previsti per garantire o, al contrario, per degradare, la sua parola. Tutte le garanzie processuali passano attraverso il diaframma della parola.
Il “Manifesto” sulla linguistica giudiziaria, come ogni Manifesto, intende fondare una pratica, che è quella di guardare con maggiore consapevolezza al linguaggio nel processo penale, il quale non è rappresentato dalla parola ma è messo in forma dalla parola.
Per raggiungere questa consapevolezza auspichiamo che avvocati e magistrati facciano ponte con le altre discipline: con i linguisti, con i fonetisti, con gli ingegneri del suono, con gli analisti della conversazione, con i dialettologi.
Infatti, il tema della parola nel processo penale si pone all’incrocio di molte discipline particolari e può essere compreso solo avvicinandosi contemporaneamente da diversi versanti.
Ciascuno di noi partirà dal proprio terreno di competenza ma dovrà anche esser pronto ad abbandonarlo per qualche metro. Finché ciascuno di noi rimarrà chiuso nel proprio hortus conclusus di conoscenze e discipline specialistiche, tutti noi falliremo nell’attuazione dei diritti e delle garanzie processuali.
In conclusione, come nella società del XVII secolo il corpo fisico era al centro del controllo del pubblico potere, soprattutto giudiziario, oggi la parola è il “nuovo corpo” su cui si realizza il potere in ogni momento del processo penale, dalle intercettazioni al dibattimento. La parola è il nuovo corpo che dobbiamo proteggere, è sulla parola che dobbiamo fondare il nuovo Habeas Corpus.
Nulla di più fisico, nulla di più corporeo, infondo, della Parola.
Se continuiamo a disinteressarci delle dinamiche linguistiche che sono coinvolte in ogni atto del processo penale, la parola resterà “indifesa” anziché essere “in difesa” e noi tutti falliremo nella tutela delle garanzie e dei diritti del singolo.
https://www.oralegalenews.it/wp-content/uploads/2021/01/MANIFESTO-sulla-linguistica-nel-processo.pdf
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Image credit: Dean Moriarty da Pixabay
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