Vestali a chi?

Vestali a chi?

di Loredana Papa (Avvocata in Bari)

Comincio con una confessione: fino a qualche tempo fa mi dichiaravo assolutamente contraria alle quote di genere e così anche alla declinazione delle parole al genere femminile laddove non proprio di uso comune. Mi sembrava che le quote nascondessero l’ammissione che le donne rappresentino una “categoria” da proteggere e che non siano abbastanza capaci di prendersi gli spazi nel mondo del lavoro, nella politica e nella rappresentanza per ruolo, competenza e qualificazione, dovendo invece ricorrere allo strumento del rispetto di un numero legale.

E così ritenevo che un linguaggio di genere sottolineasse una differenza nell’espletamento di una funzione, che non volevo in realtà venisse sottolineato.
Ebbene … mi sbagliavo! Col tempo l’ho capito!
Le quote di genere sono servite (e servono) per imporre una presenza femminile che in tanti casi sarebbe rimasta ancora esclusa.
Il linguaggio di genere è utilissimo, perché incidere sull’abitudine al pensiero anche attraverso l’espressione letterale, è un primo passo verso e per il cambiamento.
Ma di strada da percorrere ce n’è ancora tanta!!

Il motivo di questa riflessione nei giorni del lockdown -che comunque ci sta dando spazi temporali impensabili- è la definizione attribuita, in un articolo pubblicato su un quotidiano, a due donne che ricoprono incarichi pubblici, come “le brave vestali della cultura“.
Ho ricercato la definizione di vestale nei dizionari della lingua italiana: nell’antica Roma le vestali erano le vergini sacerdotesse che formavano il collegio sacro addetto al culto della dea Vesta e alla custodia del fuoco sacro e del focolare domestico e pubblico; in senso figurato si definisce vestale chi tutela un valore ideale, un principio, con grande intransigenza e rigore e per lo più in forma ostentata o senza averne titolo (definizione tratta dal vocabolario on line Treccani).

Certo si può pensare che la definizione, contenuta nell’articolo di stampa, intendesse esaltare il ruolo delle brave amministratrici pubbliche, sottolineandone le doti femminili di cura, dedizione e custodia.
Ma è davvero così?
Il rischio è quello di instillare nel lettore l’idea che le donne, pure quando ricoprono posizioni di rilievo pubblico e così di potere, se sono brave e capaci hanno (o forse conservano) il ruolo (al più) di custodire qualcosa di prezioso che è, però, altro da loro; si occupano, si prendono cura di qualcosa, non concretizzano esse stesse il ruolo e la funzione che rivestono.

Il linguaggio può fare davvero la differenza: la tentazione di definire e così di catalogare le donne all’interno di ambiti tipicamente femminili, pur attribuendo a tali ambiti un elevato valore positivo, può nascondere l’abitudine alla delimitazione per genere, che non produce l’ampiezza e la neutralità del pensiero necessaria per sfuggire agli stereotipi o… ai recinti.

Image credit: Rozenn Le Gall
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