
Violenza di genere alla Corte di Giustizia europea
di Maria Franca Mina (Avvocata in Torino Consigliera del Forum- Associazione Donne Giuriste – componente CPO Ordine avvocati di Torino)
Dal 1952 la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) vigila sul rispetto e sulla corretta applicazione del diritto dell’Unione negli Stati Membri. Nel corso degli anni le sentenze pronunciate hanno rafforzato l’integrazione europea conferendo a tutti i cittadini diritti più ampi e promuovendo l’affermazione del principio di parità di trattamento e non discriminazione, previsto dall’art. 20 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
La Corte di Giustizia è garante della corretta interpretazione del diritto dell’Unione e può essere adita mediante domanda di pronuncia pregiudiziale ad istanza del giudice nazionale che nutre dubbi sull’interpretazione di un atto adottato dall’Unione o sulla sua validità.
([1] La CGUE è composta di due Sezioni: la Corte di Giustizia ed il Tribunale: la corte di Giustizia tratta le richieste di pronuncia pregiudiziale presentate dai tribunali nazionali e alcuni ricorsi per annullamento e impugnazioni; il Tribunale giudica sui ricorsi per annullamento presentati da privati cittadini, imprese e, in taluni casi, governi di paesi dell’UE. Le materie ricorrenti riguardano la concorrenza, aiuti di Stato, commercio, agricoltura e marchi.)
Il giorno 2 marzo 2020, la Corte di Giustizia si è riunita in sessione per ascoltare le parti della causa C129, involgente la compatibilità del sistema italiano di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti impossibilitate ad ottenere riparazione dal colpevole (per impossibilità economica ovvero irreperibilità) e la Direttiva UE 80/ 2004 CE.
Il giudice europeo è stato adito con ordinanza del 29/01/2019 di rimessione della Sez III Civile (Pres. Travaglino) della Corte di Cassazione nella causa riguardante una vicenda di violenza sessuale, perpetrata in danno di una cittadina italiana residente in Italia, ad opera di due cittadini rumeni, resisi latitanti.
La vittima nonostante la condanna dei due imputati ex art 609 bis cp e la concessione di una provvisionale di Euro 50.000,00, nulla aveva ottenuto a titolo di risarcimento per la brutale aggressione subita, a causa dell’irreperibilità degli autori del crimine.
Essa si rivolse al Tribunale di Torino richiedendo la condanna nei confronti della Presidenza del Consiglio dei Ministri, al risarcimento dei danni derivatile dal mancato adempimento dello Stato Italiano alla Direttiva UE 80/2004CE, la cui attuazione le avrebbe, invece, consentito, quale vittima di un crimine intenzionale violento, di ottenere un indennizzo equo ed adeguato tramite il sistema previsto dall’Unione, al quale, appunto, il governo italiano non aveva dato tempestiva e corretta esecuzione.
Con sentenza del 03/5/2010, il Tribunale di Torino adito condannò la Presidenza del Consiglio dei Ministri al risarcimento dei danni a favore dell’attrice, rapportati alla sofferenza patita in conseguenza dell’efferato delitto di cui era stata vittima e calcolati in via equitativa nella somma di Euro 90.000,00.
Il giudice di merito, invero, ritenne sussistente l’invocata responsabilità dello Stato italiano che, rendendosi inadempiente alla Direttiva Europea aveva mancato di prevedere un meccanismo indennitario per tutti i reati intenzionali violenti e dunque anche per il reato di violenza sessuale – reato contro la persona di evidente natura violenta e intenzionale.
La sentenza fu confermata dalla Corte di Appello di Torino, con decisione in data 3/01/2012, che confermò sostanzialmente l’impianto motivazionale del Tribunale, discostandosi unicamente nel calcolo dell’ammontare del danno, ridotto ad Euro 50.000,00, somma ritenuta congrua a titolo di indennizzo, cui limitava la responsabilità del governo, ritenendo la responsabilità per il danno pieno limitata a carico dell’autore del reato.
Le premesse dei giudici di merito richiamano le disposizioni della Direttiva, in base alle quali gli Stati membri devono dotarsi di un sistema di indennizzo che garantisca un indennizzo equo ed adeguato a favore delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori (art. 12.2).
Inoltre è previsto, al fine di garantire la libertà di circolazione dei cittadini europei nel territorio, che le vittime possano usufruire del trattamento risarcitorio per mezzo del fondo istituito nel paese in cui si è verificato il fatto illecito, anche se la loro residenza abituale sia situata in un diverso Stato membro (si tratta dei casi denominati transfrontalieri/cross border) con facoltà di presentare domanda di indennizzo presso le autorità istituite nello Stato in cui hanno la residenza, nonostante il fatto illecito sia avvenuto in un altro Stato membro.
“Tutti gli Stati membri provvedono a che le loro normative nazionali prevedano l’esistenza di un sistema di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori, che garantisca un indennizzo equo ed adeguato delle vittime” (art.12, paragrafo 2).
([2] Procedura di infrazione promossa dalla Commissione europea, in data 22 dicembre 2014, contro la Repubblica italiana (Causa C-601/14) per omessa adozione di “tutte le misure necessarie al fine di garantire l’esistenza di un sistema di indennizzo delle vittime di tutti i reati intenzionali violenti commessi sul proprio territorio”, di cui all’obbligo ex art. 12, par. 2, della direttiva 2004/80/CE.)
Anche lo Stato italiano, come previsto esplicitamente all’art. 18, avrebbe dovuto attuare il prescritto sistema entro il 1 luglio 2005 nonché garantirne il funzionamento nei casi transfrontalieri/crossborder entro il 1 gennaio 2006.
La Presidenza del Consiglio dei Ministri si ostinò, per anni, a sostenere che lo Stato aveva già predisposto un sistema di indennizzo per reati violenti segnatamente contemplati nelle distinte disposizioni normative a favore delle vittime di crimini di terrorismo, di matrice mafiosa ovvero di usura ed estorsione e che, pertanto, aveva adempiuto la Direttiva.
Tuttavia, la Corte di Giustizia, dietro ricorso della Commissione, volto ad avviare la procedura di infrazione, con sentenza del 29/11/2007 decretò lo Stato di inadempienza alla direttiva 80/ 2004-CE.
Inutilmente, a procedimento consolidato, era stato approvato il DL 9/11/2007, recante norme di attuazione della Direttiva 80/2004/CE. Né le nuove disposizioni apparivano idonee a superare il problema in quanto si trattava di mere disposizioni procedurali, volte a disciplinare le modalità di accesso ai fondi settoriali già operativi, ma limitai ad alcune categorie di vittime di reati dolosi commessi con violenza alla persona.
Il perdurare della mancanza di tutela risarcitoria per le vittime di crimini intenzionali violenti perpetrati da soggetti sconosciuti ovvero resisi irreperibili o incapienti ha prodotto decisioni di giudici di merito che, in alcuni casi, analogamente ai giudici del Tribunale di Torino, hanno accolto la richiesta delle vittime di risarcimento a carico del governo per inadempimento alla Direttiva 80/2004-CE, mercé la quale, avrebbero potuto ottenere un indennizzo equo ed adeguato al danno subito.
Negli anni seguenti, perdurando l’inadempienza dell’Italia alla Direttiva 80/2004/CE, venne incardinata, nel corso dell’anno 2014, una nuova procedura di infrazione.
Successivamente fu varata la legge 122/2016 istitutiva del «Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso, delle richieste estorsive, dell’usura e dei reati intenzionali violenti», che consentiva l’accesso al fondo alle vittime di reati dolosi commessi con violenza alle persone, sia pur con esclusione del reato minore di percosse, ma con l’inclusione del delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro.
In seguito, il Decreto, emesso il 31 agosto 2017 dai Ministeri dell’Interno e della Giustizia, determinò l’ammontare di indennizzi fissi e manifestamente irrisori per i delitti di omicidio, violenza sessuale e lesioni personali.
Recentemente tali importi sono stati alzati significativamente dal DM 22/1/2019 mantenendosi, tuttavia la fissità degli importi degli indennizzi per ciascuna categoria di reato.
Nello svolgersi delle suddette vicende, giungeva in Cassazione, su ricorso della convenuta soccombente Presidenza del Consiglio die Ministri la causa, come sopra indicato, decisa dalla Corte di Appello di Torino, in seconda istanza, nella vicenda della cittadina italiana vittima di stupro ad opera dei due soggetti mantenutisi irreperibili.
I giudici di legittimità, con ordinanza del 12/05/2015, rinviarono la causa in attesa della pronuncia della Corte di Giustizia Europea, sul ricorso per infrazione della Commissione del 2014.
Nel prosieguo, alla luce dell’entrata in vigore delle nuove diposizioni sul fondo di solidarietà alle vittime di reati intenzionali violenti di cui alla sopraindicata legge 122/2016 e del Decreto Ministeriale conseguente, la Corte di Cassazione emise l’ordinanza del 29/01/2019 con cui sospendeva il giudizio ed ai sensi dell’art. 267, par. 3, TFUE, chiedeva alla Corte di giustizia dell’Unione Europea di pronunciarsi, in via pregiudiziale, sulle questioni di interpretazione del diritto dell’Unione concernenti la Direttiva 80/2004-CE, rilevanti e pregiudiziali in ordine alla vicenda sottoposta al suo esame.
Specificatamente, in ragione dei fatti di causa che, come si è sopra detto, riguardavano una cittadina italiana vittima di stupro, patito in territorio Italiano nonché sulla premessa che la Direttiva fosse rivolta a disciplinare i casi transfrontalieri/cross border, la Cassazione chiese, in via principale, alla Corte di Giustizia Europea di statuire se l’inadempienza dello Stato Italiano potesse configurarsi anche sotto il profilo della mancata istituzione di un fondo che operi a favore di soggetti non transfrontalieri.
Subordinatamente alla risposta positiva al predetto quesito, la Corte formulava altra domanda volta a conoscere se l’indennizzo stabilito in favore delle vittime dei reati intenzionali violenti ed in specie del reato di violenza sessuale previsto e punito all’art 609-bis cp, dal decreto del Ministro dell’interno 31 agosto 2017 nell’importo fisso di euro 4.800, potesse reputarsi “indennizzo equo ed adeguato delle vittime” in attuazione di quanto prescritto dall’art. 12, par. 2, della direttiva 2004/80.
Il cardine della remissione e la sua legittimazione ruotano intorno al principio di non discriminazione sancito dall’art. 20 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e ripreso dal nostro Ordinamento .
([3] L 24/12/2012, n. 234 impone parità di trattamento tra i cittadini italiani e quelli degli altri Stati dell’Unione: art 32 e 53 )
Tale principio determina l’interdipendenza tra il diritto riconosciuto dalla Direttiva nei casi cross border ed il conseguente diritto che dovrebbe essere riconosciuto al cittadino dello Stato membro.
All’udienza pubblica del 2 marzo 2020 tenutasi alla Corte di Giustizia Europea, a Lussemburgo, sono comparsi gli avvocati delle parti, che hanno svolto le rispettive difese dinanzi al collegio giudicante composto da 15 giudici che hanno rivolto loro domande, come previsto dal peculiare rito, orientando le arringhe difensive.
Il rappresentante del governo italiano ha sostenuto che la situazione di cui trattasi nel procedimento principale, relativa ad una vicenda di cui è rimasta vittima una cittadina italiana nel territorio del suo stesso paese, non rientra nell’ambito di applicazione della direttiva 2004/80, bensì solo del diritto nazionale. Di conseguenza in una situazione puramente interna, la Corte non è, in linea di principio, competente a statuire sulla questione posta dal giudice del rinvio. Egli ha altresì richiamato il nuovo regime di indennizzi portato dal DM 22/11/2019, che prevede un più elevato indennizzo ammontante ad Euro 25.000,00 per le vittime di violenza sessuale.
Il difensore della persona offesa ha ribadito la competenza della Corte di Giustizia, richiamandosi al disposto di cui all’art. 20 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, asserendo che la corretta costituzione di un fondo per le vittime di reati intenzionali violenti deve considerarsi il presupposto necessario perché la direttiva possa operare nei casi cross border, senza discriminare i cittadini residenti, cui del pari la risorsa deve essere destinata, per il principio di non discriminazione. Di tal che, la mancanza di tutela del cittadino italiano residente costituisce inadempimento della Direttiva e non mera questione interna, indifferente rispetto alla legge europea.
L’attenzione dei giudici si è appuntata, altresì, sulla natura ed entità dell’indennizzo previsto dallo Stato italiano e sono state rivolte domande atte a comprendere se le somme erogabili erano fisse ovvero vi fosse la possibilità di determinarle, sia pure entro un minimo ed un massimo, in ragione della necessità di garantire, con le dovute differenze da caso a caso, un indennizzo congruo.
La domanda di una giudice, volta a conoscere se gli autori del crimine fossero stati condannati ed in che misura al risarcimento del danno a favore della vittima, ha messo in luce l’irrisorietà dell’indennizzo di Euro 4.800,00 che alla vittima sarebbe spettato, ratione temporis (il reato risale al 2010) in forza del DM 31/08/2017. Anche il più elevato importo di Euro 25.000,00, attualmente liquidabile in base al nuovo DM 22/11/2019 sarebbe ancora distante dalla somma di Euro 50.000,00 liquidatale dal giudice penale a mero titolo di provvisionale e dal giudice civile a titolo di risarcimento indennitario.
Recentemente l’Avvocato Generale ha depositato le proprie conclusioni affermando che la Direttiva Europea impone agli Stati membri di istituire sistemi di indennizzo nazionali che prevedano l’indennizzo di qualsiasi vittima di un reato intenzionale violento, indipendentemente dal suo luogo di residenza.
L’importo dell’indennizzo fissato nel diritto nazionale, per rispondere al canone dell’equità ed adeguatezza, ancorché forfetario ovvero standardizzato, deve consistere in un contributo significativo alla riparazione del danno subito dalla vittima, e pur non dovendosi approssimare al risarcimento integrale, esso non può essere talmente esiguo da diventare puramente simbolico.
Ove la Corte accogliesse siffatte proposte, il caso farebbe da apripista per un adeguamento dello Stato Italiano ai principi da tempo accolti dall’Europa, in tema di tutela delle vittime di criminalità.
Appare, invero, ineludibile, a fronte dei provvedimenti Europei a tutela delle vittime di reato (a cominciare dalla Convenzione Europea relativa al risarcimento delle vittime di reati violenti, vigente dal 1988, mai firmata dall’Italia, per giungere alla Direttiva 29 / 2012 /UE ed alla Convenzione di Istambul, non del tutto attuate nel nostro paese) considerare che un reato, specie se attuato con violenza alla persona, non si compendia unicamente nel torto verso lo Stato ma provoca la lesione dei diritti umani della persona offesa.
Alle vittime di reato, in base ai principi di solidarietà ed uguaglianza, insiti nel nostro stesso Ordinamento, compete il diritto di essere riconosciute come tali e di ricevere congrua riparazione, anche al fine di ottenere che la stessa ferita inferta alla società sia risanata.
Il risarcimento del danno è uno degli strumenti funzionali al riconoscimento e riparazione delle vittime. Ne consegue che lo Stato non possa sottrarsi a sopperire all’incapienza ovvero all’irreperibilità dell’aggressore, apprestando alle vittime di crimini intenzionali violenti un indennizzo equo ed adeguato.
Ciò posto, non si può non osservare che le nuove tabelle entrate a regime dal 22 novembre 2019, pur ritoccate in aumento, continuano a non rispondere affatto ai criteri della Direttiva 80, poiché a causa della fissità degli importi non garantiscono che l’indennizzo sia “equo ed adeguato” ai differenti i casi concreti. Di conseguenza permangono nel nostro Ordinamento limiti alla tutela delle vittime, a causa dei quali il nostro governo rischia anche una nuova procedura di infrazione alla Direttiva 80/2004CE.
Image credit: Yayoi Kusama installation, Lousiana, 2015
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