Alla prova del tempo

Alla prova del tempo

Il processo del lavoro ha compiuto 50 anni: un modello processuale alla prova del tempo

di Vito Vannucci (Avvocato in Livorno)

I compleanni coincidenti con le decadi, si sa, stimolano bilanci sulla vita trascorsa.
Per questo qualsiasi riflessione sulla “vita” fin qui trascorsa dal processo del lavoro credo che non possa che partire dalla lettura della relazione alla proposta di legge 533/73 alcuni passaggi della quale sorprendono per l’attualità del contenuto e risultano estremamente interessanti ed emblematici.
Mi riferisco, in particolare, ai seguenti passaggi:

La realtà processuale delle controversie individuali di lavoro o di previdenza e assistenza obbligatoria, diviene ogni giorno di più patologica, e tale da costituire un vero e proprio processo di vanificazione dei diritti dei lavoratori: dalle lungaggini temporali crescenti, all’aumento dei costi, all’inadeguatezza dei giudici e dei mezzi processuali.
Non è allarmistico affermare che siamo al limite di rottura della credibilità della tutela giurisdizionale statuale, e come di contro si allarghi la fascia della “fuga dalla giustizia” della Repubblica fondata sul lavoro… I presentatori sono certamente consapevoli come questa legge imponga parallelamente il superamento delle inadeguate e arretrate strutture giudiziarie che saranno chiamate ad attuare la nuova normativa che rappresenta a nostro avviso un salto di qualità nel nostro processo del lavoro… Certamente l’entrata in vigore del nuovo processo esigerà e favorirà di pari passo, al fine della piena applicazione della nuova legge, un indirizzo radicalmente nuovo nell’amministrazione della giustizia che investa:…c) l’assegnazione di un considerevole ed adeguato numero di magistrati dotati di alta qualificazione e di ausiliari di giustizia, nonché la messa a disposizione di locali e moderni strumenti tecnici di accertamento e di ritenzione del processo, compito a cui saranno chiamati Parlamento, Governo e Consiglio superiore della magistratura.

Credo che la lettura di questi passaggi – che potrebbero tranquillamente costituire il contenuto della relazione introduttiva di una riforma processuale dei giorni nostri – non possa indurre un particolare ottimismo.
Se, infatti, 50 anni fa si segnalavano le medesime criticità e si auspicavano gli stessi interventi riparatori, se ne dovrebbe, allora, concludere che le riforme attuate, compresa quella del processo del lavoro del 1973, sono servite davvero a poco e che, forse, non migliore fortuna avranno quelle attuali.

Peraltro, il pessimismo indotto dalla lettura della relazione alla legge 533 è controbilanciato dalla considerazione (logica) che se la riforma del 1973 ha fin qui retto per 50 anni e, anzi, in questo periodo se ne è esteso il campo di applicazione e se ne è ripetutamente parlato come di un modello processuale da prendere ad esempio anche per riformare la giustizia civile in generale, significa che tale riforma contiene elementi positivi in grado di rispondere tutt’oggi, dopo 50 anni, alle particolari esigenze richieste dalle controversie di lavoro.

Il che ancora, a mio modesto parere, significa che le attuali criticità del processo del lavoro, come già avvertito (anche) dai presentatori della legge 533, non derivano (soltanto) dal modello processuale, ma anche da altri fattori ad esso estranei e relativi alla complessiva organizzazione dell’amministrazione della giustizia (o “servizio giustizia” o, meglio, della funzione giurisdizionale).

Del resto, la necessità di una particolare regolamentazione per le liti di lavoro (sia pure con modi e soluzioni assai diverse) è stata avvertita, in pratica, da sempre, e cioè almeno da quando può dirsi iniziata l’esperienza giuslavoristica.

Così, tanto per ricordare rapidamente l’esperienza italiana che ha preceduto la legge 533, abbiamo avuto:

  • 1) i Collegi dei Probiviri (1893) alla cui giurisprudenza si deve, di fatto, la nascita delle prime regole ed i primi istituti del diritto del lavoro;
  • 2) nel periodo pre corporativo le Commissioni per l’impiego privato;
  • 3) nel periodo corporativo (legge Rocco 1926) la Magistratura del Lavoro (Sezioni specializzate -togati ed esperti) presso le Corti di Appello con una speciale regolamentazione per il processo del lavoro (di competenza però della Magistratura Ordinaria) per le controversie individuali;
  • 4) il codice del 1942 che mantenne comunque una specifica sezione (art. 409 e seg.) per le cause di lavoro.

E del resto, l’esigenza di giudici specializzati per cause di lavoro è comune anche ad altri paesi a noi vicini.
Ricordo:

  • i “Juzgados de lo social” in Spagna (istituiti nel 1989 per il raggiungimento di scopi in gran parte coincidenti con quelli perseguiti anche dalla riforma entrata in vigore ad inizio anno: rapidità ed efficacia per la risoluzione dei conflitti; certezza del diritto nel mercato del lavoro; modernizzazione del sistema giudiziario; specializzazione nella materia);
  • i consigli dei Prud’hommes francesi (composti in maniera paritaria da rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro con presidenza alternata) per i quali è interessante il dato -che istituisce un parallelismo con la situazione italiana- del calo rilevante del contenzioso (da 187.651 cause del 2014 a 127.000 nel 2017);
  • i Tribunali del lavoro tedeschi, anche questi composti con la presenza di due giudici onorari di nomina datoriale e dei lavoratori.

Il dato storico e comparatistico ci consente, quindi, di concludere per la conferma della bontà della scelta del legislatore del 1973 diretta ad istituire un corpus specifico di norme per le controversie del lavoro con la creazione di Sezioni specializzate.

La legge 533, del resto, ha innovato profondamente rispetto al modello del processo ordinario (che, all’epoca, non conosceva quasi le preclusioni).

Volendone descrivere in estrema sintesi il contenuto, mi limito qui a ricordare che essa non pone l’esclusività della giurisdizione ordinaria (in vario modo favorendo la risoluzione transattiva delle liti nelle varie sedi protette individuate dall’ordinamento) ed aprendo persino all’arbitrato ove sindacalmente previsto nei contratti collettivi (si ricorda anche l’arbitrato di cui all’art. 7 Statuto per le sanzioni conservative).

Il modello di procedimento, come sappiamo, è ispirato alla triade chiovendiana dell’oralità, immediatezza e concentrazione (sicuramente, per così dire, “addolcita” nella prassi, ma sempre presente) e caratterizzato dal ruolo attivo del magistrato sia per il tentativo di conciliazione che per i poteri istruttori officiosi.

L’ambito di applicazione è stato poi progressivamente esteso nel tempo; mi limito a ricordare la più importante di tali estensioni, quella relativa alle controversie del pubblico impiego che ha comportato l’ampliamento dei poteri del Giudice Ordinario sino all’emanazione anche di sentenze costitutive del rapporto di lavoro (art. 63 d.lgs n. 165/2001).

Eppure il processo del lavoro è in crisi.

I numeri stanno lì a dimostrarlo: tra il 2014 ed il 2020 (dati ministeriali) la contrazione costante delle cause ha portato ad una riduzione complessiva del 32%.
Tale situazione ha fatto dire a qualcuno che ci troviamo di fronte ad una vera e propria “fuga dalla giurisdizione”, ovvero proprio a quello stesso pericolo che già i presentatori della legge n. 533 si raffiguravano e che si ripromettevano di sconfiggere proprio grazie alla nuova normativa processuale (e agli altri interventi individuati come necessari nella loro relazione).

E la fuga dalla giurisdizione, in generale, ma, soprattutto, dalla giurisdizione del lavoro, non è mai un bel segnale per lo stato democratico, per uno stato che “è fondato sul lavoro”.

Le cause, tuttavia, sembrano da ricercarsi non in una perduta efficienza del rito lavoro (che, pur con le diverse “prassi” applicative e pur con uno standard qualititativo, per così dire, a macchia di leopardo, ha dimostrato di poter funzionare e di poter essere funzionale alla tutela dei diritti in gioco) così come disegnato dalla legge 533, quanto, piuttosto, in fattori esterni uno dei quali è certamente costituito da una serie di nuove normative “sostanziali”:

  • la nuova disciplina delle spese legali con la modifica dell’art. 96 cpc del 2009 (chi perde paga sempre);
  • l’estensione del C.U. anche alle cause di lavoro; la liberalizzazione dei contratti a termine, (D.L. n. 34/2014);
  • il jobs act del 2015;
  • il Rito Fornero.

Ma, a mio modesto avviso, più ancora di tali interventi normativi, la causa è da ricercare nel mutato clima culturale, in quella che (con tutte le eccezioni del caso e, come si dice, senza fare di ogni erba un fascio) potremmo definire una sorta di burocratizzazione dei giudici del lavoro.
Chi parla ha la sensazione (avallata dal confronto con molti colleghi giuslavoristi, ma anche con alcuni magistrati) che si sia diffuso il fallace convincimento secondo cui il “servizio giustizia” (e già il termine “servizio” è indicativo) dovrebbe funzionare secondo mere logiche produttive.
La sensazione, insomma, è che si “lavori a tempo”: un TOT a sentenza (e, del resto, simmetricamente, la recente riforma impone agli avvocati una “difesa a misura obbligata”, con atti da contenersi in limiti di spazio prefissati e sostanzialmente inderogabili).

Paragonare un potere istituzionale, come quello giudiziario, agli operatori economici è insensato: il primo, a differenza dei secondi, non è libero di scegliere se, come e quando collocarsi sul mercato.
Né esso è libero di acquisire e allocare da sé nel migliore dei modi le necessarie risorse umane e materiali: queste sono distribuite in sede di legge di stabilità secondo fini e prospettive che di tutto si preoccupano meno che del miglioramento del servizio giustizia.

Non di meno tale distorto modo di vedere è fatto proprio dal Ministero della Giustizia, dal CSM e da buona parte della Magistratura del lavoro.

I primi due richiedono continue riduzioni delle pendenze, non importa come realizzate: in altre parole, ogni anno devono “prodursi” più sentenze dell’anno precedente e in tempi sempre più brevi, ma a costo zero, cioè senza nuove risorse a parte quelle, recenti, di (anche qui precario) personale di supporto (gli addetti all’ufficio del processo).
Dal canto suo una buona parte della Magistratura del lavoro, sempre al fine di ridurre le pendenze e assecondare le aspettative del CSM, usa in modo distorto quel processo del lavoro che la riforma del 1973 aveva caratterizzato in termini di concentrazione, immediatezza, oralità ed esercizio officioso dei poteri istruttori (sul punto si veda anche A. Pileggi, “La progressiva defunzionalizzazione del processo del Lavoro“, in Lavoro Diritti Europa, Numero Speciale del 2023).

Oggi, di fatto abolita l’oralità grazie all’abuso delle udienze a trattazione scritta e da tempo sparito dal radar l’esercizio officioso di poteri istruttori, l’immediatezza e la concentrazione vengono declinate per lo più come necessità di fare a meno dell’istruttoria, considerata “disfunzionale” alla ragionevole durata del processo.

Ma se le cause del “malessere” del processo del lavoro sono quelle sopra sommariamente descritte, ci dobbiamo, allora, chiedere se i recenti interventi di cui al d.lgs.n. 149/22 possano, in qualche modo, porvi rimedio.

  • Qui, in breve, ritengo che si possa affermare, in relazione ai principali di tali interventi, ed azzardandomi in previsioni del futuro, che:
  • a. L’abrogazione del rito Fornero dovrebbe avere ripercussioni positive non solo per l’eliminazione delle note incertezze interpretative sulle domande proponibili, sulle preclusioni, sui rapporti tra fase sommaria e a cognizione piena etc., ma soprattutto perché alleggerirà i Tribunali di quello che, come noto, di fatto era divenuto una sorta di doppio primo grado che inevitabilmente andava anche ad incidere sui costi per le parti;
  • b. L’introduzione della negoziazione assistita rende finalmente giustizia, dopo 9 anni, alla a dir poco discutibile eliminazione dal D.L. n. 132/14 dell’originaria previsione che consentiva l’operatività dell’istituto anche alle controversie di lavoro. Resta la (ad avviso di scrive inutile ed anomala) previsione della trasmissione dell’accordo alle commissioni di certificazione dei contratti.
  • c. Gli interventi sul fronte dell’impugnazione del licenziamento del socio lavoratore di cooperativa e in tema di rito per far valere la nullità per discriminatorietà del licenziamento si iscrivono alla categoria degli opportuni interventi chiarificatori su questioni controverse che, pertanto, dovrebbero consentire una tutela giudiziale più veloce e di qualità.
  • d. Negativa l’introduzione del 3° comma dell’art. 127 cpc e degli articoli 127 bis e 127 ter. Si tratta, infatti, della “stabilizzazione” (peraltro prevedibile) di una norma “precaria” introdotta per governare l’emergenza pandemica.

La trattazione scritta, ad avviso di chi scrive, costituisce la negazione del mondo valoriale del processo del lavoro quale era alla base dell’introduzione della l.533 e di cui abbiamo letto nella relazione introduttiva.
È l’esatto opposto non solo dell’oralità, ma anche della immediatezza e della concentrazione.
Toglie al processo del lavoro (ma direi al processo in generale) quel che di non spiegabile ma di facilmente comprensibile a chi pratica i Tribunali del lavoro e che è essenziale alla piena tutela dei diritti interessati.

Nessuna trattazione scritta potrà mai integralmente sostituire l’immediatezza di una replica, lo spunto nell’intervento del collega o del Giudice che fa riaprire la trattativa e porta alla conciliazione, l’attesa avanti alla porta del Giudice utilizzata (per scambio di idee ed esperienze, ma anche) per aprire una trattativa fin lì evitata dalle parti. La comodità di qualche trasferta in meno (evitabile semplicemente con la sostituzione del collega) non compenserà mai la perdita dei vantaggi dell’udienza in presenza.

Credo che su questo punto l’avvocatura (tutta e quella del Lavoro in particolare) debba essere ferma nel chiedere una modifica della normativa nel senso quantomeno della inapplicabilità della trattazione scritta alle controversie di cui all’art. 409 e seguenti c.p.c.

In tal senso si esprime anche una parte della giurisprudenza che ha affermato:

che l’art. 127 ter cpc non appare compatibile con il rito del lavoro ed in particolare con la fase decisoria, in quanto la sostituzione dell’udienza con il deposito delle note scritte comporta inevitabilmente il venir meno della caratteristica fondamentale del processo del lavoro, costituita dalla mancanza di cesure tra la discussione della causa e la deliberazione della decisione, e determina altresì l’eliminazione del dispositivo che deve essere letto, necessariamente e a pena di nullità insanabile, nella stessa udienza in cui le parti hanno discusso la causa, contrariamente alla motivazione che può essere depositata successivamente (art. 429, comma 1);
che quindi la sostituzione dell’udienza con la trattazione scritta confligge con il carattere essenziale del rito lavoristico consistente nel principio di concentrazione processuale
” (così si è espressa la Corte di Appello di Torino in una recente ordinanza di reiezione di un’istanza di trattazione scritta).

Del resto, la specialità di tali controversie è stata recentemente ribadita dalla disciplina della riforma della magistratura onoraria.

E qui si apre un altro importante campo di intervento dell’avvocatura per ottenere un processo del lavoro qualitativamente all’altezza.
Mi riferisco all’art. 11, comma 6 d.lgs. n.116/2017 che vieta l’assegnazione ai giudici onorari dei procedimenti in materia di rapporti di lavoro e previdenza.
L’esperienza ci insegna che tale norma è continuamente bypassata sul presupposto che assegnare il procedimento sarebbe cosa diversa dal tenere udienza.

Così i giudici onorari, in molti Tribunali, sono detentori di veri e propri ruoli del lavoro; agli stessi sono indiscriminatamente nominati sostituti in udienze anche istruttorie senza alcuna precedente valutazione della difficoltà richiesta dall’adempimento.

Ora, tale prassi interpretativa mi sembra totalmente contraria alla ratio della norma che, all’evidenza, è quella di riservare un settore così delicato per la vita sociale come quello del lavoro ad un giudice togato.
Non solo, mi sembra soprattutto contraria alla dignità del cittadino (lavoratore o datore) e (secondariamente) dell’avvocato che lo assiste.
Ma ancora mi sembra una vera e propria incongruenza in un paese la cui Costituzione definisce “fondato sul lavoro”.
Il lavoro è elemento fondante della Repubblica, ma le controversie vengono affidate alla magistratura onoraria (ed allora, volendo essere provocatori, verrebbe da dire che l’onorario equivale al togato).
Insomma, la devoluzione anche delle semplici udienze, ai GOP contraddice lo spirito della l.533/73 che creò le Sezioni specializzate.

Infine, una parola, sempre de iure condendo, sul campo di applicazione.

È necessario, anche per compensare quella fuga dalla giurisdizione di cui si è detto all’inizio, che l’ambito di applicazione del processo del lavoro sia esteso anche alle controversie aventi ad oggetto i rapporti tra lavoratori autonomi e loro clienti.
I tempi sono maturi più di quanto sembri.

Ricordo un fatto che credo conosciuto da pochi.
La primissima bozza della legge n. 81/2017 (c.d. Jobs act del lavoro autonomo) frutto, insieme all’equo compenso, di una rara stagione di attenzione della politica per il lavoro professionale, prevedeva che le controversie inerenti il rapporto contrattuale tra il professionista e il cliente fossero di competenza del GdL secondo gli art. 409 e seg. C. C..
Non casualmente tale previsione scomparve dalle bozze successive.
Non solo, ma le stesse tutele previste, appunto, dalla l.81/17 e da quella sull’equo compenso troverebbero nel GdL, per così dire, il giudice naturale.
Del resto, così è già accaduto con le sentenze della Corte di cassazione Sez. Lavoro che hanno statuito su rapporti professionali qualificati come co.co.co. con applicazione integrale degli art. 409 e seg.
Ed ancora, alcune voci in dottrina e numerose sentenze dei TAR (pronunciatesi in materia di applicazione dell’equo compenso) hanno indicato anche i parametri costituzionali (in primis l’art. 1 e l’art. 35) fondanti la tutela (anche) del lavoro autonomo.
I tempi sarebbero, quindi, anche giuridicamente maturi per questa riforma.

Credits: Emilian Robert Vicol da Pixabay

Di Vito Vannucci, su Ora Legale News

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