Controriforme d'urgenza

Controriforme d’urgenza

di Aldo Luchi (Avvocato in Cagliari)

“In prigione, in prigione!
E che ti serva da lezione”

(E. Bennato, Burattino senza fili, 1977)

La punizione, anzi la “galera”, come unica soluzione a qualunque problema reale o creato ad arte, a qualunque emergenza concreta o evocata a fini propagandistici.
La sicurezza come mantra ossessivo raggiungibile unicamente attraverso l’aumento delle pene detentive e dei soggetti cui applicarle.

Che si parli di “Riforma della prescrizione”, di “Spazzacorrotti”, di “Decreto anti-rave”, di “Decreto ONG” o di “Decreto Caivano”, per elencare soltanto gli esempi più eclatanti, la matrice di qualsiasi provvedimento normativo adottato dai governi illiberali è sempre la stessa, sotto tutti i profili: formale, semantico e del contenuto.

L’abuso della decretazione d’urgenza in luogo dell’iter normativo ordinario, la connotazione come “Misure per prevenire” o “per il contrasto”, l’aumento delle pene detentive, l’allargamento delle ipotesi di carcerazione preventiva, l’introduzione di nuove figure criminose e misure di prevenzione.

Poi, si vanno a guardare i risultati e si scopre l’assoluta inutilità, se non la dannosità, di queste misure in un Paese nel quale ancora oggi, a distanza di 50 anni, sono ancora in vigore le norme “emergenziali” adottate negli anni ‘70 per il contrasto al terrorismo e, a distanza di 90 anni, le norme fasciste da Stato di Polizia del TULPS.
I reati continuano imperterriti a prescriversi (il 70% nella fase delle indagini preliminari), la corruzione esiste ancora ed è alimentata dalla burocrazia, i rave-party non sono diminuiti, il c.d. DASPO urbano rimane una misura arbitraria e inutile, gli sbarchi dei migranti sono aumentati tanto da avvicinarsi al record del 2016 (180.000 persone) ma è aumentato anche il numero dei morti in quell’immenso cimitero che è ormai il Mediterraneo (dati UNHCR), il disagio e la criminalità giovanile esistono da sempre e discendono quasi sempre da politiche socio-educative scellerate.

La matrice repressiva, panpenalistica e carcerocentrica di tutti questi interventi è figlia di quello stesso populismo che sfrutta ogni evento per instillare, in un’opinione pubblica che ha definitivamente smarrito ogni senso critico, il senso di insicurezza e la convinzione che sia sufficiente punire in modo esemplare il nemico di volta in volta individuato per risolvere il problema senza dispendio di energie e di denaro.

E sulla scorta di questa matrice si eliminano istituti di civiltà giuridica per impedire ai “furbetti” di “farla franca”, si vieta la concessione di misure alternative o di benefici penitenziari a prescindere dalla verifica dell’effettività del processo rieducativo, si infliggono sanzioni per “difendere i confini”, si estendono a dismisura misure di prevenzione la cui attivazione compete alle forze di polizia e si abbassano i limiti per l’applicazione delle misure cautelari anche per soggetti per i quali l’esperienza carceraria rappresenta l’evento che li consegnerà definitivamente nelle mani delle organizzazioni criminali.

Interventi meramente repressivi e non finalizzati a rimuovere le cause dei fenomeni che asseritamente intendono contrastare non soltanto si rivelano del tutto inutili ma spesso sono forieri di ulteriori gravi conseguenze.

È il caso del c.d. Decreto Caivano che, prendendo le mosse da un fatto di cronaca certamente grave, omette però di considerare l’humus sociale in cui tale fatto, al pari di tantissimi altri, è avvenuto – un ghetto (il Parco Verde) nel quale la criminalità organizzata detta le regole, risolve i problemi anche e soprattutto occupazionali e arruola manovalanza a bassissimo costo nel disinteresse generale – e i più basilari principi pedagogici ed educativi che hanno ispirato la Giustizia minorile. E questo anche con l’esclusione di quelle previsioni spiccatamente repressive, come l’abbassamento della soglia di imputabilità e l’irrealizzabile divieto di accesso dei minori ai siti per adulti, ostentate nei primissimi giorni successivi ai fatti.

Rimane comunque incomprensibile come si ritengano conciliabili la previsione di misure di prevenzione e l’abbassamento dei requisiti richiesti per l’adozione di misure cautelari nei confronti di minori con le finalità educative e socializzanti che permeano l’intero processo minorile. E altrettanto può dirsi con riferimento alla previsione di sanzioni detentive nei confronti dei genitori che sembrano spostare il fulcro della responsabilità penale dal piano soggettivo a quello oggettivo o per fatto altrui.

Tra le molte contraddizioni che emergono da questo provvedimento, una senza dubbio assume un rilievo notevole: da un lato – almeno nell’idea dei proponenti – si ritiene il minore imputabile già dai 12 anni, lo si rende destinatario di misure di polizia come il DASPO, il foglio di via, l’ammonimento e di misure cautelari personali, così aprendogli definitivamente la strada verso il mondo criminale, e, dall’altro lato, lo si deresponsabilizza sanzionando con una pena detentiva i genitori (che sovente sono già in carcere per altri motivi!) e non si adotta alcuna misura concreta per fornirgli un’alternativa alla criminalità.

È l’ipocrisia tipica dei fautori delle pene esemplari, dell’uso deterrente del carcere, della finalità retributiva della pena, della vendetta di Stato.
La stessa ipocrisia del giudice gorilla immaginato da Carlo Collodi appena 150 anni fa:


“Il giudice lo ascoltò con molta benignità; prese vivissima parte al racconto: s’intenerì, si commosse: e quando il burattino non ebbe più nulla da dire, allungò la mano e suonò il campanello.
A quella scampanellata comparvero subito due can mastini vestiti da giandarmi.
Allora il giudice, accennando Pinocchio ai giandarmi, disse loro: — Quel povero diavolo è stato derubato di quattro monete d’oro: pigliatelo dunque e mettetelo subito in prigione. ― “

(C. Collodi, Le avventure di Pinocchio, 1883)

Credits: M W da Pixabay

Di Aldo Luchi, su Ora Legale News

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