
Giustizia discriminatoria
di Maria Brucale (Avvocata in Roma)
A quanti di noi avvocati è capitato di assistere una persona indigente che accede al patrocinio dei non abbienti o che neppure riesce ad accedervi perché non ci mette nelle condizioni di allegare all’istanza i documenti che la rendono ammissibile?
A quanti di proporre appello contro una sentenza che si percepisce ingiusta o che semplicemente ha degli spazi per ridurre la pena inflitta dal primo giudice anche se il nostro assistito sparisce nel nulla e non abbiamo alcun canale per contattarlo?
A quanti di portare le censure anche in Cassazione, se la sentenza presenta vizi di legittimità, perché le vite di chi assistiamo pesano sulla nostra coscienza e sul nostro sonno?
Con la nuova formulazione dell’art. 581 c.p.p. non potremo più.
Certo, si alleggerisce la nostra responsabilità e si distende anche il nostro tempo.
In fondo lo scopo primario della riforma Cartabia era ridurre il mare informe di arretrati che intasano i tribunali e consentire tempi più celeri di definizione dei processi.
L’istituto della prescrizione è stato sacrificato sull’altare del populismo imperante ed è ancora più urgente porre rimedio alle insopportabili lentezze del nostro apparato di giustizia.
L’Europa ci guarda e i soldi del PNRR devono essere messi a frutto.
Così si disegna un sistema in cui anche la presunzione di innocenza è un lusso e all’imputato va posta prudenzialmente la necessità di svolgere un ragionamento di opportunità nella scelta, in modi e tempi definiti, delle nuove misure sostitutive.
Un sistema in cui l’avvocato è spogliato della sua sostanza difensiva e lo si rende un sapiente burocrate che si muove, davvero a fatica, nelle maglie di un meccanismo che suggerisce la pronta resa a una pronuncia di condanna purché mite, purché accettabile, purché immediata. In cui, appunto, ci è negata la possibilità di resistere proponendo appello a una sentenza di primo grado che riteniamo meritevole di censura se il nostro difeso non ha firmato, dopo di essa, specifico mandato ad impugnare eleggendo un domicilio idoneo ai fini della notificazione della citazione a giudizio.
Così anche le sentenze che, se emesse a carico di persone economicamente solide, quelle che hanno una vita ordinata e prevedibile, un posto sicuro dove vivere, familiari che si occupano di loro, quelle, insomma, che un avvocato possono pagarlo, cadrebbero sotto la scure delle corti d’appello (le percentuali note parlano di oltre il 30 % di casi di riforma), si tradurranno, invece, in ordini di esecuzione della pena per le persone fragili, che non hanno nulla e a volte non sono padrone nemmeno di sé stesse, che vivono per strada e di strada, che spariscono e non firmano il mandato ad impugnare o l’elezione di domicilio.
La conseguenza più ovvia è che finiscano a nutrire l’esercito degli invisibili nelle nostre carceri sovraffollate, tempio di ogni marginalità, dove le muffe colorano le pareti e i cessi sono accanto ai piani cottura, dove manca il lavoro e il vivere è solo capacità di resistere a un tempo che non passa fino a quando si viene risputati fuori fino al prossimo arresto perché i soldi del PNRR non si sono tradotti in difesa sociale, in strutture che accolgono, in risorse umane e materiali per gli istituti penitenziari né per i tribunali di sorveglianza.
Forse i processi saranno più veloci, le corti d’appello e i supremi giudici snelliranno i loro arretrati ma la sensazione struggente è che ne venga fuori una giustizia sempre più discriminatoria che troppa polvere nasconde sotto il tappeto di un’apparenza comoda almeno quanto iniqua.
Credits: Susanne Jutzeler, Schweiz da Pixabay
Di Maria Brucale, su Ora Legale NEWS
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