Il buon luogo
di Antonella Annecchiarico (Segretaria Generale Enti locali-Parco Lombardo della Valle del Ticino – FronteVerso Network)
Accolgo la sfida di scrivere questo breve contributo su un tema come l’utopia, non facile in un’epoca post ideologica, mentre sono in un Liceo di Milano.
Il luogo mi sollecita, sento l’energia di tanti giovani, che, seppur sommersi da una quantità di prove, tra cui le verifiche scritte che valgono come orale, conquista della performante buona scuola, hanno finalmente ritrovato la relazione.
Osservo l’intervallo, dopo tre anni è autorizzato negli spazi comuni; è stato riaperto il bar nel sotterraneo dipinto di grigio e si sfreccia per le scale.
Puro respiro per giovani che hanno vissuto l’ambita pausa per tre anni fra il chiuso della propria camera e le mura della loro classe.
Sono rumorosi, come devono essere i giovani, discutono, hanno stili diversi, seppure c’è un qualcosa che li accomuna, un certo spaesamento, un occhio rivolto verso gli altri e un altro al cellulare, spesso a carpire la propria immagine.
Mi metto invisibilmente in ascolto, colgo spezzoni di discorsi:
la pandemia, l’ambiente, la guerra, i diritti civili, i collettivi, l’interrogarsi su regole non metabolizzate perché non spiegate nel loro fine e scritte in un linguaggio ostico, ma anche lo spasmodico ripasso, l’organizzazione dell’aperitivo.
Mi assale un senso di rabbia per la nostra incapacità di adulti di contribuire a costruire nuovi immaginari, di lavorare sul trauma.
Come madre che ha una certa confidenza con le politiche pubbliche da due anni che mi dico “se avessi avuto la responsabilità di dirigere un liceo, il greco lo avrei proposto attraverso la lezione di Aristotele, camminando all’aperto, scandendo all’aria la musicalità della lingua” e forse ragazze e ragazzi ne avrebbero colto un estraniante piacere, avrebbero fatto proprio il senso dello studiare l’inutilità di una lingua morta che diventa strumento di trasformazione, di azione sul proprio vissuto e sul proprio desiderio.
Questo greco, fatto di grammatica, di testi incomprensibili, di frustrazioni, forse sarebbe diventato una forza di cambiamento, attuale, solida, reale.
Alla fine della prima fase pandemica si è parlato della cosiddetta outdoor educational, un flusso di progetti e denaro per continuare alla fine a costruire muri, lasciando nel frattempo i giovani al chiuso davanti agli schermi o mascherati nelle loro classi, con un numero esponenziale di verifiche spesso strutturate ispirandosi alla logica del test e con i tempi contingentati su materie che richiedono pensiero critico e analitico.
Questo ragionamento è naturalmente declinabile non solo per la scuola, è una sfida che mi piace lanciare; una tensione a lavorare nei contesti e per i contesti, testandone energie, potenzialità, fallimenti, piccole deviazioni che potrebbero contribuire a costruire utopie che diventano risposte, parole che diventano restituzioni.
Concludo con una riflessione sulla semantica del nome Utopia.
Il topos greco, luogo fisico ma anche circostanza opportuna, occasione.
L’utopia è concreta, ha la solidità del luogo fisico e mentale dove coltivarla.
Il suo prefisso non è una negazione, l’ou ma è eu la positività, la tensione, la giusta causa.
L’utopia è al contempo radicamento e spaesamento, un luogo coltivato ove convive quella biodiversità da cui possono nascere nuove colture e culture.
Il collega agronomo del Parco del Ticino continua a insegnarlo a me, giurista, responsabile della legittimità degli atti.
Credits: ÑIKO (Antonio Perez), Si Salgo, Llego
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