Impresa etica e investimento reputazionale

Impresa etica ed investimento reputazionale

di Gianvito Giannelli (Ordinario di Diritto Commerciale nell’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”)

Quando si parla di impresa etica, l‘idea sottesa a questa espressione è che coloro che gestiscono l’impresa si debbano fare carico dei costi sociali ed ambientali generati dalla gestione e possibilmente ridurli o prevenirne l’insorgere. Il tema si è sempre più spesso posto all’attenzione sia della letteratura aziendalista che di quella giuridica; in una accezione più ampia si parla ancora di impresa etica nel senso di destinazione di una parte del risultato di gestione a favore di finalità meritevoli di tutela; questo tema ha purtroppo assunto una particolare attualità per l’insorgere della pandemia da diffusione del Co-vid 19; cosicchè non sono mancati già i primi interventi, sia da parte delle aziende e che degli studiosi, volti a rivalutare l’assunzione di scelte eticamente orientate da parte dell’impresa.

La destinazione del risultato di esercizio per finalità eticamente rilevanti si verifica con gli enti del terzo settore (alcuni dei quali esercitano l’attività come impresa: artt. 8,9 e 11 d. lgs. n. 117 del 2017, c.c. Codice ETS) ma che perseguono finalità comunque specificamente elencate (art. 5, d. lgs. n. 117 del 2017). Quando però parliamo di impresa etica vogliamo dire qualcosa di diverso, sia perché l’impresa cosiddetta etica potrebbe perseguire finalità non elencate nella disciplina del terzo settore, sia perché non tutti gli enti del terzo settore sono imprese (o sono imprese etiche).

Parlare di impresa etica significa agire con logica imprenditoriale, ma anche adottare comportamenti eticamente orientati, senza seguire necessariamente la regola della massimizzazione del profitto, il che pare una contraddizione in termini; e verrebbe da richiamare la provocazione di Duccio Libonati, professore di Diritto commerciale all’Università La Sapienza, secondo cui Francesco d’Assisi diventò Santo quando decise di spogliarsi dei ricchi abiti del mercante.

Non sempre, però, l’agire secondo comportamenti eticamente orientati è oggetto di previsione legislativa o regolamentare, cosicchè l’imprenditore potrebbe essere indotto a non orientare le proprie scelte secondo criteri eticamente orientati, se questi non sono recepiti in regole giuridicamente vincolanti.
Se l’agire etico non significa agire secondo regole legalmente imposte, il rapporto tra agire secondo comportamenti eticamente orientati e fare impresa è più complesso di quanto non si immagini ; di più, ci dobbiamo chedere se se gli amministratori di un’impresa che agiscano secondo scelte eticamente orientate non si assumano ulteriori responsabilità nei confronti dei soci.

Nella riflessione dei giuristi e dei filosofi del diritto si è passati dall’auspicare il recepimento da parte del diritto positivo delle regole etiche (il che sembrerebbe escludere una loro valenza vincolante ove non siano appunto recepite in regole di diritto positivo) verso una progressiva apertura verso l’adozione di regole etiche non necessariamente vincolanti dal punto di vista giuridico.
L’adozione di un comportamento eticamente orientato non solo non è obbligatorio ma, come ho anticipato, ci si può chiedere se sia o meno fonte di responsabilità.
Il dubbio sorge perchè, mentre le scelte di gestione ispirate a criteri di massimizzazione del valore delle partecipazioni dei soci sono insindacabili nei limiti della c.d. business judgemente rule, ci si può legittimamente chiedere se scelte non ispirate a tali criteri non si pongano in contrasto con l’obiettivo di perseguire lo shareholders’value e siano come tali fonte di potenziali responsabilità.

Un secondo ordine di prolemi riguarda allora la ricerca di un punto di equilibrio tra massimizzazione dello shareholders’ value da un lato e il farsi carico di bisogni sociali o ambientali.
Il riferimento alla responsabilità sociale di impresa presuppone la discrezionalità degli amministratori nel perseguire obiettivi socialmente od eticamente appaganti; se, in ipotesi, vi fosse discrezionalità nell’assunzione di scelte eticamente orientate, allora da un lato non vi sarebbe un obbligo di conformarsi a standard di legalità (cioè di essere compliant), dall’altro ci troveremmo, piuttosto, nell’ambito della sfera della insindacabilità o della limitata sindacabilità delle scelte di gestione; cioè in un’area che è piuttosto contigua a quella della business judgement rule.

Viceversa, ci troveremmo al di fuori della CSR (Corporate social responsability) ogni qualvolta certi comportamenti fossero oggetto di un intervento legislativo o dell’assunzione di un obbligo contrattuale.
Troviamo un cenno all’adozione di comportamenti imprenditoriali sostenibili nella disciplina del rating di legalità, contenuta nel decreto-legge 24 gennaio 2012 (art. 5-ter, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27, nonché ancora, nel regolamento di attuazione (Decreto 20 febbraio 2014, n. 57) del – MEF-MISE, Gazzetta Ufficiale del 7 aprile 2014, n. 81, concernente l’individuazione delle modalità in base alle quali si tiene conto del rating di legalità attribuito alle imprese ai fini della concessione di finanziamenti da parte delle pubbliche amministrazioni e di accesso al credito bancario, ai sensi dell’articolo 5-ter, comma 1), nonché, ancora, nel Regolamento dell’Autorità Garante della concorrenza e del mercato.

Il complesso di regole è articolato sui tre livelli, uno di fonte primaria e due secondari (regolamento ministeriale e regolamento AGCM).
Questo complesso apparato evidenzia una serie di comportamenti , ai fini dell’attribuzione o al miglioramento del rating di legalità, tra i quali rientrano l’ adozione di processi volti a garantire forme di Corporate Social Responsibility anche attraverso l’adesione a programmi promossi da organizzazioni nazionali o internazionali e l’acquisizione di indici di sostenibilità.

L’attribuzione del rating di legalità serve ai fini: i) della attribuzione del punteggio in graduatoria; ii) della distribuzione delle risorse; iii) della riduzione di tempi e costi di accesso al credito (art. 5 d.m.); iv) della valutazione del merito creditizio.
Si impongono alcune riflessioni: l’attribuzione del c.d. rating di legalità è legata al rispetto di regole di legge la cui violazione non si traduce necessariamente in reati, ma anche nell’assoggettamento a misure amministrative (per esempio misure di prevenzione o sanzioni di altro genere (sanzioni AGCM) in ipotesi di (grave) illecito civile; b) non è, invece, legata necessariamente al rispetto di regole obbligatorie, perché il rating può essere migliorato mediante l’adozione volontaria di modelli organizzativi, l’adesione a protocolli di legalità, la conclusione di accordi con le associazioni dei consumatori e così via; la disciplina del rating di legalità incoraggia l’adozione di comportamenti virtuosi mediante tecniche incentivanti.

Una ulteriore riflessione, strettamente legata a quelle che precedono, è che il rispetto delle regole di comportamento di CSR o più in generale di comportamenti eticamente responsabili è giuridicizzato, ma anche questo aspetto della riflessione va chiarito perché è fatto oggetto non di obblighi giuridici, quanto piuttosto di oneri; in linea con le scelte legislative fino ad ora seguite anche a livello comunitario. In Spagna, la legge del 4 marzo 2011 impegna le pubbliche amministrazioni a promuovere le migliori paratiche esitenti per la responsabilità sociale di impresa e l’economia sostenibile, fornendo altresì strumenti di misurazione per la loro autovalutazione della responsabilità sociale di impresa.

Anche a livello comunitario sono state avviate iniziative per finanziare la crescita sostenibile, nonché, a partire da dicembre 2018, per verificare proposte di tassonomia delle attività sostenibili elaborate da gruppi di esperti della finanza sostenibile, volte a definire criteri omogenei per determinare il grado di sostenibilità di un investimento .
Alla luce delle esperienze legate alla introduzione del rating di legalità e dei suggerimenti che ci vengono dalla legislazione spagnola ci si può chiedere se, nell’attuale congiuntura e nello scenario economico post Co-vid 19 che si profila, le misure di sostegno alle imprese in termini di iniezioni di liquidità non possano essere anche condizionate, almeno per quelle di dimensioni più grandi, ad investimenti socialmente rilevanti di almeno una frazione della finanza erogata.

Dal punto di vista giuridico, è vero che non è obbligatorio (o non sempre obbligatorio) conformarsi a determinate regole di responsabilità etica, ma è altrettanto vero che conformarsi a determinate regole di responsabilità etica potrebbe avere una funzione proattiva nei confronti di certi rischi reputazionali, nonché una funzione di protezione del valore del patrimonio dell’impresa,e, quindi dell’investimento dei soci.
In altre parole, può non essere obbligatorio farsi carico di problemi etici quali ad esempio la sostenibilità di esigenze sociali ma può essere conveniente e lungimirante, dal punto di vista della correttezza delle scelte imprenditoriali investire in obiettivi socialmente rilevanti per migliorarne la reputazione dell’impresa sul mercato o per esorcizzare eventali danni reputazionali.

La dottrina ha ritenuto il rischio di reputazione inteso come la conseguenza economica del giudizio del rapporto fiduciario percepito dagli stakeholders in termini di potential to affect long term trust … of the organization by its stakeholders thus affecting areas such as customer loyalty, … and shareholder value.
D’altro canto, la grande impresa costituisce pur sempre un centro di potere che incide su una pluralità di interessi anche conflittuali e non vi è dubbio che il rischio reputazionale coinvolga la percezione della stessa hanno non solo gli azionisti ma anche gli stakeholders e però si traduca in una perdita di valore per i primi.

Da tutto questo emerge che il rischio nasce dall’adozione di comportamenti non corretti nei confronti degli stakeholders, può avere per effetto una diminuzione di valore dell’impresa in quanto tale, colpendo gli shareholders.
Se tradizionalmente la collocazione del rischio reputazionale si colloca all’interno del rapporto con gli stakeholders si è posto, però il problema se l’adozione di tecniche di mitigazione del rischio, anche attraverso il perseguimento di finalità sociali, possano andare in contrasto con lo shareholders value e stakeholders value; e, quindi, causare un conflitto all’interno dell’impresa tra shareholders e stakeholders.
Nell’impostazione di autorevole dottrina gli interessi dei soci possono essere in contrasto con pratiche di investimento nello stakeholders value.

Anche nella dottrina nordamericana c’è chi ha sostenuto che, nell’ambito del rispetto dei fiduciary duties che i manager hanno nei confronti dei soci, i manager si debbano attenere soltanto ad osservare lo shareholder value e che, quindi, un investimento per la tutela di interessi esterni potrebbe porsi in contrasto con quest’ultimo.
Il conflitto si verifica tra azionisti e creditori (azionisti tra di solo) in quanto i primi possono privilegiare investimenti più rischiosi per incrementare la propria remunerazione danneggiando così la dotazione patrimoniale a garanzia dei creditori. Ugualmente, in presenza della separazione tra proprietà (azionisti) e controllo (management), l’insolvenza può derivare dal fatto che i managers aziendali perseguano il proprio interesse personale, a discapito della massimizzazione del valore azionario.

Nell’esperienza nordamericana, la responsabilità degli amministratori incontra un limite nella business judgement rule ed è espressione dei duty of loyalty e duty of care. Non solo è più difficile trovare spazio per scelte di carattere sociale, ma la stessa tutela dei creditori sociali passa attraverso le constitute laws e cioè regole di diritto positivo, piuttosto chele regole (non codificate) di buona gestione.
Questa impostazione dovrebbe portare ad affermare che l’esimente da responsabilità offerta dalla business judgement rule opera nei limiti in cui si persegua l’obiettivo dello shareholders value e, viceversa, non operi ogniqualvolta si perseguano interessi diversi da quelli suggeriti dallo shareholders value.

Quindi, tradotto il discorso in termini di responsabilità degli amministratori, la business judgement rule, e cioè l’insindacabilità dell’operato degli amministratori nella misura in cui si siano comunque conformati ad un duty of care, consente una esimente dalla responsabilità degli amministratori nella misura in cui si conformino alla tutela dello shareholders value. Qualora gli amministratori volessero investire su progetti socialmente utili, sarebbero fuori dalla business judgement rule. Quindi, non solo l’agire che non si conformi a regole sociali ed etiche non sarebbe fonte di responsabilità ma l’assunzione di investimenti socialmente orientati potrebbe al contrario essere fonte di responsabilità, ove non si ispiri alla protezione dello shareholders’ value.

Per la verità non sono mancate in tempi più recenti prese di posizione di indirizzo contrario ed è stato sostenuto che anche investire in pratiche socialmente utili possa assolvere a una funzione di protezione dello shareholders’ value, così come comportamenti scorretti nei confronti degli stakeholders possono comportare un abbattimento del valore della società.

In altre parole, si è posto il problema se l’investimento reputazionale debba intendersi come obiettivo fine a sé stesso (di per sé produttivo di utilità) o uno degli obiettivi che anche in un’ottica di contemperamento di interessi gli amministratori debbano perseguire. D’altro canto, sempre più si è affermato il ruolo del consiglio di amministrazione di monitoring dei diversi rischi piuttosto che di gestione vera e propria, il che conferma che la valutazione e prevenzione dei profili di rischio reputazionale non si pongono al di fuori delle competenze del consiglio. Non sono mancate analisi secondo cui anche la difesa degli interessi degli stakeholders non implica necessariamente il diniego della massimizzazione del profitto.

In questo senso l’articolo 64 del CSC portoghese richiede di perseguire, a livello principale o prevalente, l’interesse sociale (interesse comune a tutti i soci in quanto tali nel realizzare il massimo profitto attraverso l’attività della società); a livello secondario, gli “interessi di altre parti rilevanti per la sostenibilità della società, come i suoi lavoratori dipendenti, clienti e creditori” (le parti interessate: stakeholders). Quindi, si rimette al consiglio di amministrazione la ponderazione degli interessi per rendere razionale la decisione (purché sia ancora strumentale al perseguimento di quello interesse e non si ritenga infedele nei confronti della società).

A livello di sistema, la percezione di comportamenti non corretti sul piano reputazionale comporta un peggioramento del rating complessivo, un aumento dell’indice del costo di assorbimento del capitale.
Tutto questo per dire che in realtà il problema reputazionale, con riferimento anche agli stakeholders, si può tradurre in una perdita di valore, in una perdita di quote di mercato, nella difficoltà di attrarre personale qualificato e, in parallelo, nel rischio di perdere risorse umane qualificate, anche per effetto della riduzione del grado di motivazione del personale, nella.perdita di opportunità strategiche (fusioni e acquisizioni); fino al rischio di solvibilità.

Per ovviare all’obiezione della dottrina nordamericana secondo cui l’investimento in comportamenti socialmente utili, ma non necessariamente a favore dei soci, pone gli amministratori al di fuori della protezione offerta della business judgement rule, si potrebbe ricorrere ad una logica di internalizzazione e cioè di recepimento anche di questi obiettivi di investimento in un piano industriale che sia condiviso dagli organi della società e anche dagli stessi azionisti.

Peraltro, anche nella esperienza giuridica nordamericana si afferma progressivamente, sia a livello statutario (c.d. constituency statutes) sia nelle legislazioni nazionali (Delaware’s Code del 2013, 362, Model Benefit Corporation Legislation) il recepimento di istanze di protezione degli stakeholders; che, a livello legislativo può essere facoltativo (i permissive statutes consentono ai gestori di tenere in considerazione gli interessi dei dipendenti e, più in generale degli stakeholders) e obbligatorio (nei mandatory statutes i quali impongono di tenere conto questi ultimi) .
In questo senso il recepimento di questi interessi da parte dell’impresa potrebbe offrire una protezione agli amministratori e non porsi in contrasto anche con l’interesse dei soci.

Ne’ si può escludere che la violazione di obblighi (generici) di diligenza nel senso di agire in modo razionale ed informato comporti sempre l’insorgere di una responsabilità degli amministratori e costutuisca motivo per espandere la business judgement rule fino ad includere la tutela di interessi esterni.
Di più, non si potrebbe escludere, in linea con una scelta del codice di autodisciplina delle società quotate, che per gli amministratori che sono destinatari di deleghe gestionali una parte significativa della remunerazione sia legata al raggiungimento di specifici obiettivi di performance anche di natura non economica (art. 6 P.2, Codice di autodisciplina).

Il danno reputazionale si riflette sul valore delle partecipazioni dei soci ed investimenti in termini di recupero del valore reputazionale anche nel perseguimento di obiettivi socialmente utili non sono necessariamente antitetici rispetto alla tutela dello shareholder’s value .
Naturalmente occorrerebbe verificare se: a) si possono addurre giustificazioni industriali per gli investimenti di natura sociale o etica (che, quindi, sono in linea con gli obiettivi industriali; b) se viceversa si tratta di comportamenti ed investimenti etici che non hanno un ritorno industriale (per esempio investimenti c.d. etici ESG (environmental social and governance) che sono fini a se stessi.

Almeno nella prima ipotesi, difficilmente, invece nella seconda, le scelte compiute dagli amministratori sono in linea con la mission della società approvata dall’organo di direzione strategica e, quindi le scelte sono insindacabili nei limiti in cui si ritiene applicabile la business judgement rule
Questa prospettiva, però, può essere probabilmente mitigata attraverso una sorta di arbitraggio , perché la difesa degli interessi degli stakeholders non implica il diniego della massimizzazione del profitto se gli investimenti si giustificano in termini di protezione del valore.
In questa prospettiva, però, se l’obiettivo è l’efficienza dell’impresa, è inevitabile riconoscere agli amministratori spazi di insindacabilità delle decisioni .

In conclusione, riscontriamo, nelle scelte normative europee e nazionali, così come in dottrina, una progressiva apertura verso la legittimazione del perseguimento di obiettivi socialmente rilevanti da parte delle imprese, ancorchè queste scelte di gestione siano apparentamente distoniche rispetto ad una logica di massimizzazione del profitto.
Le scelte eticamente orientate, una volta considerate incompatibili con la corretta gestione di un’impresa, vengono progressivamente sdoganate: in un primo tempo incentivate ma non rese obbligatorie per ottenere determinati benefici, poi considerate come uno strumento per prevenire ed eventualmente esorcizzare i rischi reputazionali, infine valutate alla stregua di criteri che possono legittimamente orientare la gestione di un’impresa, sia pure in una graduazione gerarchica di interessi (e, quindi pur sempre purchè non tali da danneggiare la società).

Dall’esame della legislazione iberica, in particolare da quella portoghese, registriamo un significativo endorsement a favore della impresa etica, ma con una precisazione: la valutazione della correttezza del perseguimento di scelte eticamente consapevoli va fatta nell’ambito di una accurata programmazione della gestione che selezioni gli obiettivi e consenta ai soci, agli investitori e ai finanziatori la possibilità di monitorarne la realizzazione, nonché i costi e i benefici.

leggi l’articolo completo:https://www.oralegalenews.it/wp-content/uploads/2020/04/Impresa-etica-Giannelli.pdf

Image credit: David Mmirete, H MetalMgz
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