
La guerra dei dati al tempo del COVID-19
di Corrado Crocetta (Docente di Statistica Università di Foggia)
In questi ultimi 3 mesi, abbiamo imparato a conoscere un nome che non avevamo mai sentito prima: COVID-19.
Questo termine è stato coniato dagli scienziati cinesi che, per primi, hanno studiato il virus, classificandolo come un corona virus. Il termine COVID-19, infatti, è un acronimo dove le prime due lettere si riferiscono proprio alla parola Corona, la terza e la quarta sono le iniziali della parola visus, la quinta lettera è l’inziale della parola desease ovvero malattia, mentre il numero 19 si riferisce all’anno della scoperta: il 2019.
Ebbene questa breve parola è destinata a cambiare definitivamente il nostro stile di vita e la nostra società. Come affermato dallo storico Paolo Mieli, se il 1800 si è chiuso definitivamente con la prima guerra mondiale, il ventesimo secolo si è chiuso con 19 anni di ritardo, per cui i nostri libri di storia parleranno del XXI secolo a partire del lockdown che stiamo affrontando in questi giorni e che influenzerà molti aspetti della nostra vita futura.
In queste settimane, ci sono state molte polemiche sulla gestione della crisi e, soprattutto, sulla mancanza di informazioni attendibili.
Molti esperti hanno denunciato il fatto l’Italia aveva deciso lockdown, senza poter disporre di dati affidabili sulla reale gravità della pandemia che molti continuavano ad assimilare ad una grave influenza.
D’altro canto, i dati provenienti dalla Cina potevano far pensare che il nostro Paese avesse deciso di “suicidarsi” economicamente, per tutelare la salute di “pochi anziani con patologie pregresse”. Eppure, non si poteva rimanere sordi al grido di allarme dei medici di base e dei reparti di pronto soccorso che, dopo poche settimane, avevano capito chiaramente la gravità dalla situazione. Personalmente, ho previsto che la pandemia avrebbe avuto conseguenze devastanti, dopo aver letto la denuncia del sindaco di Bergamo Gori che dichiarava che il numero di morti, nel suo comune, era molto più alto dei quelli comunicati dalla protezione civile, poiché non considerava i deceduti che non erano stati sottoposti a campione.
Sfruttando il data warehouse messo a punto, qualche anno fa, dall’ISTAT per monitorare, tempestivamente, le morti dovute all’emergenza caldo, mi sono reso subito conto che nei comuni delle zone rosse, dove il distanziamento sociale era partito in ritardo, il numero dei decessi nel 2020 era anche 10 volte superiore rispetto alla media dei 3 anni precedenti.
Ricordo di aver commentato questi dati usando la metafora di una diga. Ovvero, nel momento in cui il focolaio inziale si è esteso oltre un certo limite, le misure di distanziamento sociali risultano inefficaci, così come quando dalle crepe di una diga inizia a filtrare l’acqua, non è più possibile correre ai ripari perché la pressione dell’acqua farà sì che la falla si ampli sempre di più, sino a far crollare l’intera struttura.
Oggi, sulla home page del sito www.istat.it è possibile trovare delle analisi, a livello comunale, sull’incremento dei morti registrati, rispetto agli anni precedenti. Oggetto dell’indagine sono 1.691comuni, selezionati fra quelli presenti nell’ANPR che presentano almeno dieci decessi nel periodo 4 gennaio – 4 aprile 2020 e che hanno fatto registrare un aumento dei morti pari o superiore al 20%, nel periodo 1 marzo-4 aprile 2020. Ben 836 comuni, pari a circa la metà dei casi analizzati, hanno visto raddoppiare il numero dei defunti.
Ci sono ben 48 comuni per i quali il numero di morti extra è da 10 a 17 volte il numero di defunti medio dell’anno precedente.
Un interessante studio dell’ISPI (Istituto per gli studi di politica internazionale), sui morti registrati dagli istituti nazionali di alcuni Paesi europei, permette di confrontare le morti attribuite ufficialmente al COVID19, con quelle totali e di fare dei confronti rispetto agli anni precedenti. Questo confronto ci aiuta a correggere le stime, tenendo conto anche dei morti a causa del virus che non possono essere inseriti negli elenchi ufficiali, poiché non sono stati sottoposti a tampone. Nel calcolo non si è tenuto conto della riduzione del numero dei morti, legata alla diminuzione degli incidenti stradali, degli incidenti sui luoghi di lavoro, ecc…
Una volta individuato questo numero è possibile sapere quali sono i Paesi che hanno barato di più nella comunicazione.

Il grafico consente di rilevare quali siano i Paesi che, in questi ultimi mesi, hanno registrato un maggior eccesso di mortalità, rispetto alla media degli anni 2015-2019. È evidente che tutti i Paesi analizzati hanno un eccesso di persone decedute rispetto agli anni precedenti e che tale differenza supera il numero di morti COVID-19 conteggiati nello stesso periodo. Il dato più inquietante è quello dei Paesi Bassi, dove lo scostamento è pari al 130%, per cui il numero dei decessi ufficialmente attribuiti al COVID19 è pari ad appena il 43,5% del totale dei decessi registrati.
Anche il Regno Unito presenta un poco invidiabile scostamento, del 91,9%, rispetto al numero dei morti ufficiali, mentre nel caso della Francia si registra un +42,4%. Per quanto riguarda l’Italia lo scarto è pari al 36,2%, segue la Svizzera (+34,9%), la Svezia (+33,6%) e la Spagna (+32,5%).
Quindi, rispetto ai 58.314 casi di morte da Covid19 ufficiali, possiamo presumere che vi siano poco più di 28.000 decessi in eccesso rispetto alla media dei 5 anni precedenti che presumibilmente andrebbero sommati ai casi ufficiali e che nei 7 paesi il numero effettivo dovrebbe essere incrementato del 48,3%.
In questi giorni, in cui l’attenzione dei media è concentrata sull’inizio della fase 2, è importante che l’opinione pubblica sia consapevole dei rischi legati alla riduzione del distanziamento sociale.
Se, infatti, nei prossimi mesi, il numero dei contagi dovesse tornare ad aumentare in modo incontrollato, rischieremmo di vanificare tutti gli sforzi fatti sino ora, sprofondando in una crisi persino più grave di quella che stiamo vivendo.
Image credit: Patricio González da Pixabay
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