Una strada a forma di sé
di Cristina Mangia (Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima. Consiglio Nazionale delle Ricerche – Lecce)
A 18 anni volevo capire il mondo, giocare con i numeri, proteggere l’ambiente e raggiungere l’indipendenza economica, quella che mi avrebbe garantito la libertà di pensiero.
È nata così la scelta di iscrivermi a fisica, indirizzo ambientale. Laureata al sud, specializzata al nord.
Il primo di tanti spostamenti fisici e simbolici.
Il secondo spostamento è stato quello dal tema di ricerca che mi era stato proposto a quello che più mi interessava, ovvero lo studio del trasporto e della dispersione degli inquinanti atmosferici.
Avete mai visto le mille forme di un pennacchio di fumo emesso da una ciminiera?
Sono i vortici turbolenti a determinare quelle forme. Descriverli matematicamente per poterne prevedere l’evoluzione rappresenta, ancora oggi, una delle sfide aperte della fisica classica.
Ma se la sfida scientifica è stata la turbolenza, la sfida sociale è stata quella di ritornare a Lecce e partecipare alla costruzione dell’Istituto per lo Studio dell’Inquinamento Atmosferico e l’Agrometeorologia.
Un istituto voluto dal CNR per riequilibrare la sua presenza nel sud-Italia.
All’università ti insegnano che la scienza è oggettiva, neutrale, indipendente da chi la fa e che la sua forza è il metodo.
Ma dal margine di un genere, sempre e ovunque in minoranza, e di una città del sud comprendi che quello che caratterizza le scienze sono le comunità scientifiche.
Non esiste la scienza “da nessun luogo”, sostengono le epistemologhe femministe.
Sono loro tra le prime a mettere in discussione il mito dell’oggettività della scienza, quella scienza che per secoli ha escluso le donne.
Un’esclusione che non è solo una questione etica e politica, anch’essa importante, ma che investe proprio la sfera della conoscenza. Più che uno spostamento l’incontro con le filosofie femministe rappresenta una svolta.
Di fronte ad una sfida o ad un problema non tutti si fanno le stesse domande.
Quello che noi siamo e pensiamo, i nostri pregiudizi, le nostre convinzioni o le nostre ambizioni, nel bene e nel male, non sono dei cappotti che si possono lasciare appesi all’ingresso dei laboratori di ricerca.
Lo sanno bene le donne trascurate in medicina o vittime nel passato di teorie scientifiche tendenti a sminuire le loro capacità.
Lo sa bene chi lavora nei contesti di ambiente e salute in cui nell’incertezza dei sistemi si scontrano interessi, visioni del mondo e punti di vista.
Per me il punto di vista nella ricerca sull’inquinamento è stato quello della salute pubblica, la strada quella dell’epidemiologia ambientale.
Studiare la relazione tra inquinamento atmosferico e salute significa oltrepassare i limiti disciplinari e transdisciplinari, attraversare le disuguaglianze sociali e quelle di genere, muoversi al confine tra scienza e politica nei conflitti ambiente, salute e lavoro.
Vuol dire uscire fuori dal laboratorio ed essere nella società, confrontarsi con le persone, imparare ad ascoltare e a comunicare.
Può anche voler dire rifiutare finanziamenti o incarichi se questi sono ritenuti contrari alle proprie convinzioni.
Per me ha significato continuare a rimanere fedele ai miei convincimenti e alla mia etica sfidando inciampi e difficoltà.
E questo è stato possibile grazie a tutte quelle scienziate note e meno note come Elisabetta Donini Evelyn Fox Keller, Alice Hamilton e Alice Stewart sulle cui spalle sono potuta salire per intravedere e seguire, non la loro, ma la mia strada.
https://www.researchgate.net/profile/Cristina-Mangia-2
https://www.isac.cnr.it/index.php/en/users/cristina-mangia
https://scholar.google.com/citations?user=TbBz7PoAAAAJ&hl=it&oi=ao
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