
Mobbing famigliare o genitoriale?
di Andrea Mazzeo (Psichiatra in Lecce)
Sono numerose le pagine web, di solito afferenti a siti a tema giuridico, che parlano di questo concetto; addirittura al mobbing familiare o genitoriale sono dedicate alcune tesi di laurea in Giurisprudenza.
Ritengo si tratti di pericolosa disinformazione che rischia di banalizzare il mobbing vero e proprio, quello che si verifica in ambito lavorativo e che è una vera e propria persecuzione che causa gravi disturbi psichici e psicosomatici in chi lo subisce; credo opportuno riprendere il discorso correttamente e in maniera scientifica.
Il termine “mobbing” viene oggi utilizzato solo ed esclusivamente per indicare fenomeni di persecuzione nel mondo del lavoro; secondo la definizione originaria di Leymann (psicologo del lavoro che negli anni ’80 in Svezia ha per primo utilizzato questo termine per definire certi comportamenti nel mondo del lavoro:
«Il mobbing consiste in una comunicazione ostile e non etica perpetrata in maniera sistematica da parte di uno o più individui generalmente contro un singolo che, a causa del mobbing, è spinto in una posizione in cui è privo di appoggio e di difesa e lì costretto per mezzo di continue attività mobbizzanti. Queste azioni si verificano con una frequenza piuttosto alta (definizione statistica: almeno una alla settimana) e per un lungo periodo di tempo (definizione statistica: una durata di almeno sei mesi). A causa dell’alta frequenza e della lunga durata, il Mobbing crea seri disagi psicologici, psicosomatici e sociali» (H. Leymann, Mobbing Encyclopedia).
Il concetto di mobbing familiare o genitoriale, è inesistente nella letteratura specialistica internazionale sul fenomeno del mobbing.
È presente in alcuni scritti sparsi per il web che riprendono una sentenza della Corte d’Appello di Torino, risalente al 2000, che ha utilizzato il concetto di mobbing familiare per motivare l’addebito in un caso di separazione.
La giurisprudenza successiva è scarna su questo argomento, mentre la giurisprudenza in tema di vessazioni nel mondo del lavoro (mobbing) è molto più ampia, risalendo addirittura al 1992 (Pretura di Roma, sentenza del 17/04/1992 che riconobbe un risarcimento di 500 milioni di lire a un direttore di banca emarginato nell’ambito dell’azienda).
Harald Ege, psicologo del lavoro, docente universitario, critica fortemente il termine di mobbing familiare e raccomanda che il concetto di mobbing venga utilizzato in ambito esclusivamente lavorativo. Una completa disamina di ciò che si intende per mobbing è riportata da Harald Ege nel suo sito.
Nelle condizioni che si vorrebbero qualificare come mobbing familiare o genitoriale è assente il prerequisito fondamentale delle situazioni di mobbing, e cioè il rapporto di subordinazione lavorativa tra mobber e mobbizzato: datore di lavoro-lavoratore, capoufficio-impiegati, dirigente-subordinati.
Riprendo da un sito giuridico:
«Sulla materia è intervenuta un’importantissima sentenza della Corte di Cassazione (n. 13983/2014), che ha costituito un vero e proprio arresto dello sviluppo della fattispecie giuridica. Orbene, secondo la Suprema Corte il mobbing familiare non è un illecito configurabile autonomamente. Questo perché il mobbing, per sua natura, richiede che tra l’autore e la vittima vi sia un vincolo di subordinazione (si pensi alle molestie sul posto di lavoro), vincolo che non è configurabile tra coniugi, i cui rapporti, almeno per la legge, sono caratterizzati da assoluta parità.
Secondo la Corte, infatti, la nozione di mobbing “si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente” è calzante solo per quelle situazioni in cui vi è un dislivello tra i protagonisti, nelle quali la vittima si trova in condizioni “di costante inferiorità rispetto ad un’altra – e – ciò spiega perché è con riferimento ai rapporti di lavoro che quella nozione è stata elaborata ed ha avuto applicazione”.
“In materia familiare, invece, tale nozione può essere utile solo in campo sociologico, ma in ambito giuridico assume un rilievo meramente descrittivo, in quanto non scalfisce il principio che l’addebito della separazione richiede pur sempre la rigorosa prova sia del compimento da parte del coniuge di specifici atti consapevolmente contrari ai doveri del matrimonio – quelli tipici previsti dall’art. 143 c.c. e quelli posti a tutela della personalità individuale di ciascun coniuge in quanto singolo e membro della formazione sociale familiare ex artt. 2 e 29 Cost. – sia del nesso di causalità tra gli stessi atti e il determinarsi dell’intollerabilità della convivenza o del grave pregiudizio per i figli”.
Secondo la Corte di Cassazione, pertanto, l’uguaglianza tra i coniugi esclude che sia configurabile un vero e proprio mobbing.»
Questa generalizzazione del concetto di mobbing è pericolosa perché porta a pensare che anche il mobbing in ultima analisi non sia altro che una situazione conflittuale, portando a misconoscere la drammatica condizione dei lavoratori vittime di mobbing, cioè di persecuzione nel mondo del lavoro.
Il conflitto è infatti una condizione che vede due, o più, attori coinvolti (il prefisso “con” rimanda appunto a questo concetto di condivisione); una interazione circolare in cui ciascun soggetto coinvolto gioca la sua parte.
Nel mobbing si ha, invece, in maniera lineare (e non circolare) un comportamento vessatorio verso un lavoratore, da parte di un superiore gerarchico o comunque rappresentante dell’azienda (mobbing verticale) o da parte di colleghi (mobbing orizzontale); è descritto anche un mobbing dal basso, diretto contro un superiore, ma è molto più raro.
Le condizioni in cui si vorrebbe vedere il cosiddetto mobbing genitoriale sono in realtà situazioni di conflittualità intra-familiare, o coniugale, o di violenza intra-familiare, ben note alla psicologia e al diritto e per le quali non occorre scomodare categorie concettuali nate in altri contesti.
Il rischio che intravedo è che l’avvocato che si formi l’opinione dell’equivalenza tra le condotte conflittuali o anche di sopraffazione tra coniugi e il mobbing nel mondo del lavoro non riesca poi a rappresentare al giudice in maniera adeguata la condizione di mobbing lavorativo subita dal suo cliente e quindi non riesca a difenderlo in maniera efficace.
Vengono riportati, quali esempi di mobbing familiare, gli atteggiamenti dispotici e autoritari di un coniuge nei confronti dell’altro o dei figli, le continue violenze fisiche o morali, le ripetute violazioni del diritto all’incolumità, le umiliazioni e offese sul piano estetico o scolastico/professionale o sulla famiglia d’origine, le svalutazioni in pubblico come coniuge o genitore, un atteggiamento di costante chiusura e indifferenza verso le opinioni del coniuge, il rifiuto ingiustificato di assistere il coniuge o il figlio ammalato o invalido, l’impedire al coniuge i contatti con la propria famiglia etc.
Secondo i fautori di questo concetto, il mobbing familiare o genitoriale avrebbe lo scopo di allontanare dalla casa familiare, dal contesto familiare, il congiunto sgradito.
Anche sotto questa prospettiva il concetto è errato.
L’etologia ci insegna che nel mondo animale i comportamenti di mobbing vengono messi in atto non contro altri membri del gruppo ma contro i predatori; hanno quindi un significato evolutivo ben preciso, quello della difesa della comunità e non quello di espellere un membro non gradito.
Il mobbing, infatti è definito dagli etologi come una «reazione collettiva diretta verso un predatore da parte di potenziali prede che, con l’assalto di gruppo, lo confondono e ne scoraggiano l’attacco» (Mainardi D., Dizionario di Etologia. Einaudi, 1992)
Una reazione di difesa, quindi, e non un’azione di attacco verso l’altro.
La psicologia ha ormai consacrato il concetto di mobbing come persecuzione nel mondo del lavoro.
L’uso di questo termine in altri contesti relazionali è confusivo e va evitato.
Cito infine, ancora una volta, Harald Ege, «È indispensabile resistere all’insana tentazione di applicare un termine che ‘suona’ arbitrariamente a qualsiasi cosa: i conflitti in famiglia, a scuola, tra sportivi e tra condomini infuriati ci sono e ci saranno sempre, perché la natura umana purtroppo tende al conflitto ed è caratteristica delle relazioni interpersonali quella di orientarsi spesso alla negatività. Lasciamo però da parte il termine mobbing per ciò che riguarda quei conflitti che si generano al di fuori di quel che succede sul posto di lavoro: chiamiamo questi ultimi con il proprio nome e affrontiamoli con gli strumenti più adatti al caso specifico!» (Ege H, La valutazione peritale del danno da mobbing. Giuffrè Editore, 2002)
Credits: Singha Bohrer (-Bender) da Pixabay
di Andrea Mazzeo, su ORA LEGALE News
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