Genitori same sex e giudici
di Stefano Chinotti (Presidente del C.P.O. Ordine Avvocati Bergamo – Avvocatura per i Diritti LGBTI – Rete Lenford)
Da avvocato, ahimè, di lungo corso, so bene quanto le nostre azioni giudiziali possano segnare la vita di chi rappresentiamo.
Ancora oggi accolgo però, con una certa sorpresa, gli effetti delle nostre iniziative soprattutto se legate alla rilevanza sociale del nostro ruolo. Quell’ambito del diritto che ha condotto a consentire il riconoscimento delle famiglie omogenitoriali è spesso foriero di tali imprevedibili eventi.
Recentemente mi hanno inviato un video che mostrava come la figlia di una coppia di donne, che ho seguito nel percorso di affermazione della bi-genitorialità, annunciava alla mamma c.d. sociale o intenzionale, a colei, quindi, che non l’aveva partorita, che il Sindaco del loro comune di residenza aveva deciso di ufficializzarne il ruolo. Tecnicamente: di annotare a margine dell’atto di nascita della bimba il riconoscimento da parte della compagna della madre c.d. biologica.
Quel video, quelle semplici parole rappresentano l’essenza giuridica di tutte le vertenze che, da almeno due anni e mezzo, impegnano, in un dibattito non sempre univoco e lineare ma certamente approfondito, i Tribunali dell’intero Paese.
Perché al netto di ogni analisi, anche della più articolata, la domanda che dovrebbe porsi il Giudice investito dell’istanza di riconoscimento dei figli di coppie dello stesso sesso, quantomeno per come si pone ora, cioè nei termini di riconoscere dignità sociale e giuridica a situazioni di fatto già createsi, è piuttosto semplice: corrisponde all’interesse di questi bambini e di queste bambine, che già esistono e che già vivono nell’ambito di siffatte realtà familiari, vedersi riconosciuti i diritti derivanti loro dall’essere stati procreati a valle di un progetto genitoriale di coppia? Di avere, in buona sostanza, anziché uno, due genitori.
La risposta affermativa pare scontata così come è scontato, o meglio possibile, giungere al risultato di questo riconoscimento attraverso l’attività ermeneutica, costituzionalmente orientata ed improntata all’interesse dei minorenni, di alcune disposizioni contenute nella legge n. 40 del 2004 in materia di accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita e della loro regolamentazione.
Il percorso giurisprudenziale di affermazione della genitorialità delle persone omosessuali ha origini risalenti nel tempo ed ha preso avvio dal riconoscimento dell’irrilevanza dell’orientamento sessuale nel giudizio sulle capacità genitoriali (Cass. civ. n. 601/2013).
Passa per la facoltà di adozione del figlio del partner attraverso l’applicazione del disposto di cui all’art. 44 lett. D della legge n. 184 del 1983 (la c.d. stepchild adoption di cui alla sentenza del Tribunale per i minorenni di Roma del 30.06.2014), quindi per la possibilità di trascrizione di certificati di nascita stranieri riportanti la genitorialità di due persone dello stesso sesso (Cass. civ. n. 19599/2016).
Approda, infine, dopo l’accertamento della legittimità della trascrizione di sentenze di adozione ottenute all’estero (Tribunale per i minorenni di Firenze – decreto 07.03.2017), all’iscrizione anagrafica dei figli delle coppie omosessuali nati in Italia in seguito all’applicazione di tecniche di PMA operate all’estero laddove esse siano consentite e legittime (Tribunali di Pistoia e Bologna decreti 05.07.2018).
Ed è appunto su quest’ultimo tema che si è creato un interessante dibattito fra Corti di merito, da un lato, e di legittimità, dall’altro, in cui recentemente è intervenuta anche la Corte costituzionale.
Occorre aggiungere, per chiarezza, che le questioni portate all’attenzione dei Giudici, in tali fattispecie, riguardano esclusivamente la genitorialità di coppie di donne posto che, invece, quella delle coppie maschili, caratterizzata dalla necessità di dover ricorrere alla tecnica di procreazione della gestazione per altri, parrebbe avere subito una battuta d’arresto in seguito alla decisione della Suprema Corte n. 12193, resa a Sezioni unite, il 8 maggio 2019; parrebbe, s’è detto, perché anche su questo fronte si è in attesa della decisione della Consulta a seguito di una questione di legittimità costituzionale sollevata dalla prima Sezione della Corte di cassazione con ordinanza n. 8325 del 29 aprile 2020.
Ma torniamo al nostro tema.
Il percorso argomentativo adottato dalle Corti di merito a sostegno della riconoscibilità da parte della madre intenzionale dei nati in Italia in seguito all’applicazione di tecniche di PMA applicate all’estero parte dalla felice intuizione di un gruppo di colleghi e colleghe che, evidentemente facendo proprio il ruolo dell’Avvocatura nella tutela dei diritti fondamentali (art. 1 comma 2 L. 247/2012), hanno fornito ai Tribunali di Pistoia e Bologna ottime ragioni a sostegno delle loro decisioni.
L’iter logico-giuridico seguito dai Giudici di prime cure si fonda sull’innegabile presupposto che, a seguito dell’introduzione della legge 40/2004, sia stata introdotta nel nostro ordinamento una nuova forma di genitorialità, c.d. intenzionale, che si pone accanto a quelle biologica-tradizionale ed adottiva; genitorialità fondata sul consenso all’accesso alle pratiche di PMA espresso da entrambi i componenti della coppia che vi ha fatto ricorso.
L’art. 8 della legge 40/2004 stabilisce, infatti, che è genitore chi, a prescindere dall’apporto di proprie cellule germinali, ha espresso la volontà di voler ricorrere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita.
Chi ha fornito il consenso all’accesso a tecniche di natura eterologa, senza quindi conferire proprio materiale genetico, non potrà avvalersi, inoltre, né della facoltà di non essere menzionata nell’atto di nascita né della facoltà di disconoscimento (Art. 9).
Pur tuttavia l’art. 5 della legge 40/2004 vieta l’accesso alle tecniche di PMA alle coppie same sex.
Tale divieto è però, nei fatti, superato da chi si rivolge a cliniche all’estero.
Là dove è consentito le coppie sottoscrivono il c.d. “consenso informato” ed intraprendono il percorso che le condurrà all’esperienza genitoriale.
Il momento della nascita segna un profondo discrimine per la futura tutela dei nati: qualora avvenga all’estero il figlio o la figlia potranno essere riconosciuti da entrambi i genitori ed il loro atto di nascita poi trascritto in Italia mentre, nel caso in cui essa si verifichi sul territorio nazionale, la salvaguardia dei piccoli e delle piccole dovrà passare attraverso il vaglio dell’autorità amministrativa, nella specie dei sindaci dei comuni di nascita o di residenza della madre partoriente, o dei Tribunali nell’ipotesi, non infrequente, in cui i sindaci non procedano alla formazione dell’atto di nascita con doppia maternità.
Ma il non aver rispettato i requisiti interni di accesso alle tecniche di PMA, anche se dovesse essere considerata una colpa, non dovrebbe certo incidere sulla sfera dei diritti del minorenne.
Ed è su questo punto che si innesta il dibattito, a volte anche acceso, che vede contrapposti, da un lato, i giudici di merito, maggiormente inclini ad accogliere le istanze di una società in evoluzione e dall’altro quelli di legittimità e costituzionali evidentemente più conservatori.
I primi partendo da un’interpretazione costituzionalmente orientata del disposto dell’art. 8 della legge 40/2004 giungono alla conclusione che sia il consenso a dare origine alla responsabilità genitoriale e che essa non possa essere negata sul presupposto dell’esistenza, in Italia, di un divieto d’accesso alle tecniche di PMA per le coppie same sex.
I secondi, pur riconoscendo nel consenso la fonte della genitorialità di cui alla legge 40/2004, ritengono che la violazione del precetto introdotto dall’art. 5 della medesima legge, quello appunto dei requisiti soggettivi d’accesso alle tecniche di PMA, implichi l’impossibilità del doppio riconoscimento.
Sul punto, a fronte della posizione favorevole espressa dai Tribunali di Bologna (05.07.2018), Pistoia (05.07.2018), dalla Corte d’Appello di Firenze (19.04.2019), dai Tribunali di Genova (04.06.2019), Rovereto (12.04.2019), dalle Corti d’Appello di Perugia (21.11.2019), di Bari (17.12.2019), di Trento (16.01.2020) e dal Tribunale di Rimini (26.09.2019) si è, invece pronunciata a sfavore la Corte di cassazione che, nelle sentenze 7668/2020 e 8029/2020, richiamando, erroneamente perché s’era occupata d’altro, il contenuto della decisione 221/2019 della Corte costituzionale, ha statuito, senza motivare invero, che il divieto posto dall’art. 5 della legge 40/2020 costituisse impedimento insormontabile al riconoscimento della doppia genitorialità.
Alle decisioni della Corte di legittimità hanno fatto seguito tre provvedimenti di merito, in contrasto, da parte dei Tribunali di Bergamo (20.04.2020) e di Cagliari (28.04.2020) e della Corte d’Appello di Roma (27.04.2020).
La recente sentenza 230/2020 del 04.11.2020 della Corte costituzionale pareva, infine, aver posto termine al dibattito giurisprudenziale.
Il Giudice delle leggi, infatti, se nella propria decisione 221/2019 s’era limitato a sancire la non contrarietà all’impianto costituzionale del divieto di accesso alle tecniche di PMA da parte delle coppie omosessuali, in quest’ultimo provvedimento s’è spinto ad affermare, in un obiter trattandosi di sentenza di inammissibilità, che il disposto dell’art. 5 della legge 40/2004 costituisse impedimento alla formazione degli atti di nascita con doppia genitorialità dei nati in Italia; anch’egli, invero, senza curarsi di motivare così come aveva fatto, prima di lui, la Corte di cassazione.
Non senza sorpresa, però, dopo quella della Consulta, si sono registrate, ancora, decisioni di segno favorevole alle mamme; quelle dei Tribunali di Brescia (11.11.2020) e di Genova (4.11.20202).
Ed anche i Sindaci, nella loro attività di riconoscimento anagrafico, non si sono fermati.
Ed è forse questa la vera novità conseguente la sentenza 230/2020 della Corte costituzionale. Il dissenso.
Dissenso peraltro in linea con le possibilità offerte ai Giudici di merito posto che le decisioni di inammissibilità della questione di legittimità costituzionale non hanno natura vincolante come, peraltro, stabilito dalle sezioni unite della Corte di cassazione nella sentenza 22016/2004; concetto ribadito dalla medesima Cassazione civile nella decisione 12108/2018.
La Corte costituzionale, infatti, come è facile avvedersene a seguito della lettura, nella sentenza 230/2020 non affronta funditus la questione posta dall’art. 8 della legge 40/2004 adagiandosi, senza fornire argomentazioni, sul postulato già, immotivatamente, abbracciato dalla Cassazione secondo cui il disposto degli artt. 8 e 9 della legge 40/2004 sia applicabile solo per chi risulti legittimato all’accesso alle tecniche di PMA in Italia ai sensi di quanto previsto dall’art. 5 della medesima legge.
Evidentemente la giurisprudenza di merito, coinvolta da anni un dibattito giuridico che ha visto impegnati in un confronto di altissimo profilo magistratura, avvocatura ed accademia, non intende porsi in posizione rinunciataria rispetto alla posizione di chi assume le proprie decisioni senza fornire alcun iter motivazionale.
Image credit : Arek Socha da Pixabay
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