UNA DISTOPIA REALE
La prefazione di Roberto Olivieri del Castillo (Giudice della Corte d’Appello di Bari) al libro di Maurizio Rizzo Striano “ILVA lavoro e bugie contro salute e verità”
Vi verrebbe mai in mente di fare una acciaieria a Nizza, in Costa Azzurra?
O a Barcellona, in Costa Brava? A Olbia, in Costa Smeralda?
E inoltre, anteporreste la produzione industriale e i livelli occupazionali
di alcune migliaia di persone alla vita e alla salute di decine di migliaia di bambini, donne e uomini di un vasto territorio nazionale, o alla tutela del territorio, dell’aria e dell’acqua? Accettereste di riempire l’ambiente di diossina e di benzo(a)pirene per consentire ai gestori di una acciaieria di fare profitti senza spendere quasi nulla per ridurre l’inquinamento? Riterreste conveniente incassare dal commercio dell’acciaio e spendere altrettanto per le spese sanitarie e di bonifica di un territorio, oltre ad altri danni incalcolabili per le morti da tumore che infestano da 50 anni il territorio?
Bene, se la vostra risposta è “sì” a tutte queste domande, e quindi ritenete giusto che l’acciaieria più grande, obsoleta e inquinante d’Europa sia a Taranto, limitrofa a quartieri popolosi come Tamburi, e in un comprensorio di alto valore turistico-paesaggistico (di fronte alle isole Cheradi, e praticamente in mezzo alla costa che da Castellaneta Marina giunge a Rocca Imperiale e a quella che da Campomarino e Pulsano giunge fino a Ugento), questo libro non è per voi. Lasciate stare, dedicatevi a letture più amene. Oppure, se la vostra risposta è “no”, o siete disposti a cambiare idea perché il vostro “sì” è dovuto solo a cattiva informazione, e siete curiosi di capirne di più, prendetelo e leggetelo.
Maurizio Rizzo Striano vi condurrà per mano attraverso una materia complessa resa facile e leggibile anche ai meno esperti, e vi spiegherà la storia dell’ILVA di Taranto degli ultimi 15 anni attraverso scelte discutibili, contraddizioni, aggiramenti, elusioni e tradimenti delle norme nazionali ed europee, portate avanti da chi quelle norme avrebbe dovuto rispettare e far rispettare.
Un testo documentato come un saggio, ma leggibile come un romanzo, una distopia, come si chiama il genere delle utopie negative in letteratura (come 1984 di Orwell o Il mondo nuovo di Huxley), ovvero quelle che descrivono un mondo futuro negativo o spaventoso, dove la vita non conta niente e i valori positivi vengono sovvertiti per portare all’estremo degli antivalori materiali, fino alla messa in discussione della vita stessa. Ed è quello che accade a Taranto, con l’unica differenza che ciò di cui si discute non viene posizionato in un futuro immaginario e irreale, ma è la realtà che i cittadini di Taranto provano sulla loro pelle da 60 anni. Alla fine del racconto scommetto che non avrete più le certezze di prima, ma forse ne avrete altre, più strutturate e dotate di più solide basi. E forse, anzi certamente, vi verrà di rispondere “NO!” alle domande di cui sopra.
Attraverso la disamina attenta e documentata di Maurizio Rizzo Striano si noterà anche in modo plastico il cambio di strategia con l’avvicendamento alla Direzione della Commissione IPPC di diverse professionalità tra due diversi governi: anche in tal caso il lettore potrà farsi un proprio convincimento, sempre in base alle domande iniziali. Perché se uno pensa che sia lecito consentire di operare a un’acciaieria obsoleta e inquinante, in grado di spargere benzo(a)pirene e diossina (tra le sostanze più inquinanti e cancerogene in assoluto), devastare territorio, ambiente e vite umane, un mostruoso Leviathan che opera giorno e notte ininterrottamente senza incontrare argine alcuno nella legge (esistente) e in alcuni casi in chi debba farla rispettare, in ossequio al Moloch della produzione, allora non troverà
nulla di strano nemmeno nelle (sia consentito) surreali differenze di pareri resi dalle Commissioni IPPC a cavallo di governi di diversa estrazione politica, e come sia possibile giungere all’attualità con le clausole aggiunte recentemente per consentire ad Arcelor-Mittal di aumentare la produzione e le immissioni nocive invece di ridurle come la politica aveva promesso di fare. Assolutamente da sottolineare e stigmatizzare poi gli interventi del Consiglio di Stato tesi a legittimare la produzione industriale senza considerare i livelli di inquinamento delle acque (per esempio nella decisione di annullare gli accertamenti tecnici perché condotti all’uscita dei flussi nei canali di scolo invece che in mare aperto). Le riflessioni conseguenti imporrebbero a una politica seria di riprendere in considerazione l’idea della giurisdizione unica, con unico vertice la Corte di Cassazione, e lasciando al Consiglio di Stato solo compiti consultivi, ma il discorso porterebbe lontano e non è questa certo la sede.
Quella che va sottolineata, e la vicenda ILVA ne è la triste conferma, è la tendenza sempre più marcata, anche (se non soprattutto) nelle democrazie occidentali, a governare secondo il registro dello “Stato di eccezione”, sebbene travestito da sistema di piena legalità.
Come dice Giorgio Agamben (Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, 2003, pag. 110 e ss.), «Ciò che l’arca del potere contiene al suo centro è lo Stato di eccezione – ma questo è essenzialmente uno spazio vuoto, in cui un’azione umana senza rapporto col diritto ha di fronte una norma senza rapporto con la vita. (…) Lo Stato di eccezione ha anzi raggiunto oggi il suo massimo dispiegamento planetario.
L’aspetto normativo del diritto può essere così impunemente obliterato e contraddetto da una violenza governamentale che, ignorando, all’esterno, il diritto internazionale e producendo, all’interno, uno Stato di eccezione permanente, pretende tuttavia di stare ancora applicando il diritto».
È evidente che siamo, con lo Stato di eccezione, fuori dal paradigma dello Stato di diritto, ed è compito primario dei giuristi denunciarlo. Quanto ai riferimenti al processo “Ambiente Svenduto”, trattandosi di un processo in corso la prudenza consente limitate considerazioni. Un dato è certo, e scaturisce dai rilievi di anomalie logiche messe in evidenza. La repressione penale, pur doverosa, trattandosi di attività umana dove l’errore è da mettere in conto, non è il metodo migliore per affrontare questioni ambientali di vasta portata come la vicenda ILVA. La politica che deleghi tutto alla magistratura è miope e, sia consentito, anche piuttosto vile perché rifiuta di fare scelte sue proprie.
Un’ultima nota. Nelle oculate e lungimiranti strategie industriali di inizio Novecento, anche Napoli viene colpita, dopo aver subito a opera dei solerti governi piemontesi, all’indomani dell’Unità, la chiusura di numerosi opifici industriali e manifatturieri (per esempio a Mongiana, in Calabria, con le Reali Ferriere, per restare in tema siderurgico, o a Pietrarsa, dove la protesta degli operai provocò la reazione dell’esercito con la strage del 6 agosto 1863, o a San Leucio, dove setifici all’avanguardia furono chiusi dai Savoia) dall’impeto industrializzante, e viene scelta Bagnoli per una sede dell’Italsider. Anche in tal caso, la scelta, improvvida, è caduta su una zona di altissimo valore paesaggistico e architettonico, al centro tra il promontorio di Posillipo con le sue ville romane e la zona di Pozzuoli, Baia, fino a Capo Miseno, denso di bellezze straordinarie distrutte o messe seriamente in pericolo.
Lo stabilimento ha impiegato tra gli anni ’70 e ’80 del Novecento oltre 8.000 operai, finché è stato chiuso nel 1992 per i medesimi problemi di Taranto. Una chiusura senz’altro traumatica, come si comprende leggendo La dismissione di Ermanno Rea sulla crisi della classe operaia napoletana. Purtroppo in assenza di interventi di ristrutturazione l’industria pesante è destinata a un lento, inesorabile declino, soprattutto quando sono assenti i piani industriali, piani ambientali e le risorse economiche per gestirli. Piuttosto, dagli anni ’90 del secolo scorso il vero scandalo è che non è ancora partita seriamente la bonifica del territorio e la restituzione alla città di questo arto amputato che è Bagnoli, un angolo di Paradiso perduto, per chi conosce il territorio. Sono tuttavia ragionevolmente certo che Ermanno Rea preferì scrivere un romanzo sulla crisi della classe operaia napoletana di fine Novecento, piuttosto che un saggio su morti, malati di tumore e disastri ambientali come quelli che affliggono Taranto.
Il dialogo in esordio, estratto da Le mani sulla città di Francesco Rosi del 1963, stessa epoca di costruzione del quarto centro siderurgico a Taranto, sembra affermare che passa il tempo, ma le logiche affaristiche di depredazione del territorio con il placet della pubblica amministrazione sono sempre le stesse, e sono basate su un apparato giuridico-normativo che nega nella sostanza e nel caso concreto ciò che vuole affermare nella forma e nel generale, a riprova di ciò che sosteneva Flaiano, e cioè che in Italia «si può essere sovversivi soltanto chiedendo che le leggi dello Stato vengano rispettate da chi ci governa». Chiediamo troppo?
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Giovedì 22 Febbraio 2024, alle 19.00, presso Liberrima, Lorenzo Trigiani in compagnia di Anna Losurdo ed Enzo Varricchio
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Venerdì 26 gennaio 2024, alle ore 18, presso la libreria Mondadori di Bari a Via Crisanzio 16
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