
Elpis
“la grandezza dell’uomo sta nel sopportare con serenità le avversità degli uomini e del destino“
(Lucio Annèo Seneca “la tranquillità dell’animo”)
Se fossimo al cospetto di Seneca e se fossimo Anneo Sereno, potremmo accontentarci di quanto viene suggerito al discepolo dal suo maestro. Una certa stanchezza del domani imporrebbe un distacco di tal fatta rispetto alle nefandezze umane. Una sorta di torpore che, infine, ha colto un po’ tutti.
A dirla tutta, il “De tranquillitate animi” parrebbe perfino raccontare lo stigma che il saggio Seneca prova nei riguardi di chi, come appunto il caro Sereno, mostra di essere vittima di una vera e propria sua ossessione: …”Tuttavia ho da criticare soprattutto quell’atteggiamento in me (perché infatti non confessarlo proprio come a un medico?), vale a dire di non essermi liberato in tutta sincerità di quei difetti che temevo e odiavo e di non esserne tuttavia ancora schiavo…”.
In realtà, quasi per una sorta di coerenza comportamentale, il saggio, il superlativo Seneca non prova proprio nulla nei riguardi del povero Sereno. Lui si lamenta, e il maestro, pazientemente, ascolta. Ad esser sinceri, secondo un mio modesto criterio interpretativo, ci troviamo di fronte al più classico dei dubbi (Amleto, verrà scritto molto più tardi): Sereno è, alternativamente, un essere o un non essere che anticipa, rivolgendola verso se stesso, la furia omicida di un futuro irrisolto principe.
La tranquillità dell’animo, si trasforma in una sorta di prolegomeno ad ogni futuro dubbio -amletico-.
E parrebbe trattarsi proprio di questo se solo leggessimo nelle parole del discepolo la rappresentazione di quel bilico in cui si trova costretto. Chi è causa del suo mal….verrebbe da dire.
L’incertezza, come sempre e da sempre, regna sovrana. E regna, effettivamente, da sempre: se facciamo un bel passo indietro, dovremmo ricordare che Pandora (la prima donna secondo Esiodo), dopo aver ricevuto in dono ogni ben di dio (in realtà ogni dio si impegnò per adornarla di qualunque cosa), inciampò, se posso dir così, in quel furbacchione -un po’ monello- di Ermes (oggi Georg Groddeck lo definirebbe il nostro Es) che le instillò la menzogna e la furbizia.
Fu così che Pandora, non sapendo resistere alla tentazione di aprire un vaso contenente tutti i mali del mondo, li riversò sulla terra, tranne uno. Quest’ultimo, infatti, poiché confinato nel fondo del recipiente, e nonostante la tardività con cui Pandora provvide a richiudere il vaso, vi restò dentro.
Che altro poteva essere se non il male che se ne infischia di quel che sarà e di quel che è? La Speranza, quella roba che ci fa sopravvivere nonostante tutto. Insomma, una consolazione per noi poveri esseri mortali.
Se conservassimo quel po’ di saggezza che Seneca ha cercato di trasmetterci, manterremmo, forse, una certa serenità nell’affrontare il nostro dopo.
Resta da capire, tuttavia, come spiegarci quel fenomeno che ultimamente va affermandosi, trasversalmente, nel nostro bel Paese. Mi riferisco alle plurime dimissioni dai posti di lavoro che, in molti, hanno deciso di rassegnare. Cosa accade, perciò? Ennio Flaiano diceva che nemmeno il futuro è più quello di una volta e, dunque, una volta, c’era un futuro (chissà?).
La speranza di vivere degnamente e bene s’è ridotta ad una mera e non tutelata aspettativa di sopravvivenza. Tolto il futuro di una volta (che, poi, vai a capire com’era), rinsecchitasi pure la Speranza, il dopo, anche il dopo più vicino, resta un inutile luogo astratto.
Ciò che invece non pare inutile, almeno in relazione al suo aspetto fattuale/oggettivo è che: “Tra aprile e giugno 2021 … si registrano quasi 500mila dimissioni (290mila uomini e 190mila donne), con un aumento del 37% rispetto ai tre mesi prima. Se si confronta invece il medesimo trimestre del 2020, l’incremento è dell’85%. Da un punto di vista prettamente economico, questa tendenza potrebbe indicare un mercato in salute, in cui il Covid-19 ha svolto il ruolo del detonatore, aprendo le danze a un proficuo rimescolamento dei ruoli e delle risorse. Il 60% delle aziende è coinvolta dal fenomeno delle dimissioni volontarie e nella maggior parte dei casi (il 75%) sono state colte di sorpresa rispetto a una tendenza inattesa. Le fasce d’età maggiormente coinvolte riguardano i 26-35enni che rappresentano il 70% del campione seguita dalla fascia 36-45 anni. Si tratta quindi di un fenomeno giovanile collocato soprattutto nelle mansioni impiegatizie (l’82%) e residenti nelle regioni del Nord Italia, (il 79%). ” (rainews.it/articoli/2022/04/).
Che dire poi della c.d. fuga dei cervelli? Secondo la Corte dei Conti, il fenomeno è in netto aumento: in otto anni è cresciuto quasi del 42%. La fuga, qui, è anch’essa una speranza?
L’inutilità del dopo, a questo punto, mi lascia attonito, sconfitto. Chi ha vinto chi?
Credits: Gerd Altmann da Pixabay
Di Massimo Corrado Di Florio, su Ora Legale News
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