Rilevanza strategica
Andrea Buti ( Avvocato del Foro di Macerata)
Arroganza Epistemica e concetto di valore (anche dei titoli)
“I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo” diceva Wittgenstein, mentre Vygotskij notava che il pensiero è il prodotto diretto delle parole.
Dunque, se non conosci una certa parola, non riesci neanche a formulare quel pensiero che ne è, in certo qual modo, figlio e, di conseguenza, a immaginare (figurarsi compiere…) le azioni che ne potrebbero derivare.
Se non consoci il concetto di “arroganza epistemica” non puoi dunque pensare di essere epistemicamente arrogante.
Per essere pratici: se leggi e ti occupi solo di una certa cosa (nel nostro caso, di diritto) non leggerai Taleb, e non potrai conoscere questo “suo” concetto che ha fatto il giro del mondo e che può essere definito come il difetto di chi “sopravaluta ciò che conosce e sottovaluta l’incertezza”.
Il difetto di chi non mette in discussione le proprie idee né il modo in cui sono state costruite; di chi ama muoversi solo nello spazio (apparentemente) confortevole di quel che già sa.
I più attenti mi potrebbero far notare che c’e un tale che da più di 2000 anni è famoso perché diceva “so di non sapere”.
Ovviamente qui tutti consociamo Socrate, ma quelli che lo imitano “davvero” temo siano una sparutissima minoranza. Solo i migliori pensatori sanno che più studi e più ti rendi conto di quanto sei ignorante.
Una laurea ci rende migliori pensatori?
Problema enorme che per ragioni di spazio non possiamo affrontare ora, ma che non possiamo ignorare.
Ho letto il “Cigno nero” una decina di anni fa e, come accade solo con i grandi libri che ti cambiano nel profondo, da quel momento ho cominciato a pensare e ragionare in maniera completamente diversa rispetto a come facevo prima: se sai di avere il colesterolo alto, in effetti, puoi cambiare alimentazione.
Quindi partiamo dal fatto che io (di me sto infatti scrivendo, non di te) sono ignorante di marketing e che si tratta di una disciplina sulla quale in molti in tutto il mondo fanno ricerca e studiano, scrivono libri e fanno consulenze e progetti: un mondo. Che io ignoro; punto.
Leggo un libro, due, tre, 4, 10, parlo con un consulente di marketing, ne conosco un altro, poi un altro ancora, con qualcuno di questi inizio a collaborare.
Sempre ignorante rimango, ma un po’ meno di chi pretende di sapere come funzionano le vendite (al plurale), solo perché è bravo a produrre quello che c’è da vendere. Anche quest’ultimo pensiero è reso possibile dall’arroganza epsistemica: non sa come funzionano i processi interni di un’azienda o di un’impresa, ma pretende di non esserlo.
D’altronde tante aziende non lo sanno; prendiamo esempio da quelle che cercano di fare del meglio allora!
Quelle che hanno iniziato a scoprire e maneggiare il concetto di valore: parola che tutti conoscono, ma che ha diversi portati semantici.
Il valore di un diamante non è il suo prezzo: quello è la conseguenza di altre caratteristiche.
Il valore è un’alchimia: pertanto non c’è un modo scientifico per produrlo.
Quello del diamante è un misto di:
- scarsità (sono pochi quelli che si trovano in natura)
- abilità nel tagliarlo (un diamante grezzo vale assai meno)
- capacità di “produrre” status sociale
- capacità di comunicazione (comunica più o meno opulenza a differenza delle dimensioni)
- appagamento o soddisfazione (per qualcuno)
E il valore di Apple?
Non è il (super)prezzo dei suoi device, ma quello che prova chi li compra, nell’osservarli, nel maneggiarli e nell’usarli, insomma quella che è definita nei libri (non di diritto) “esperienza utente” o UX.
Il mondo in effetti si divide in due: chi ama i prodotti della mela morsicata e chi li odia
Il valore dunque non è qualcosa di assoluto, ma di relativo.
Come nota Floridi: “Domande assolute, casini assoluti”.
Capire qual è il valore del proprio prodotto o servizio non è operazione affatto banale e possono occorrere mesi o anni per capirlo; non è qualcosa di autoevidente e spesso lo sanno meglio i clienti del venditore: magari costui pensa che il proprio prodotto (o servizi) è comprato per un certo motivo e invece lo è per un altro.
Anche in questo caso il mondo è diviso in due: aziende centrate sul prodotto e aziende centrare sul cliente; due lingue organizzative, strategiche ed operative completamente diverse.
Pensiamo davvero che la Ferrari venda “solo” automobili? Forse la FIAT è concorrente della casa del cavallino?
A questo punto possiamo farci la domandona:
Qual è il valore di un avvocato?
E il suo marketing (che non va confuso con la pubblicità, occhio) ?
Quale bisogno soddisfa un privato o un’impresa con la prestazione di un avvocato?
L’intervento di un professionista, come direbbe Osterwalder (il Trabucchi, l’Antolisei o chi altro preferisci, dei modelli di business) dovrebbe generare vantaggi o ridurre difficoltà: è davvero così?
Alla luce di queste riflessioni la discussione sui titoli (più o meno) abilitanti sembra una non discussione: sono anni che stiamo discutere della specializzazione in termini formali, di etichette, di chi la rilascia e dei soldi che ci potrebbero girare intorno, perdendo di vista il focus, ossia la sua rilevanza in termini strategici.
Se sei un vero esperto di qualcosa, e non un mero possessore di titoli attaccati ad una parete che non vede nessuno, riesci a inquadrare subito il problema, a individuare le diverse opzioni disponibili, a immaginare velocemente gli scenari, senza necessità di far attendere il cliente mentre ti vai a studiare la questione.
La consulenza e la gestione della conoscenza “a posteriori”, da costruire come un abito sartoriale, andava bene per un mondo lento e ricco.
Tra poco l’A.I. studierà i casi in maniera più efficiente (e non solo efficace) di un essere umano: qual è (lo ripeterò sino alla noia) e quale sarà il valore di un professionista in carne ossa?
Nova tempora currunt.
Di Andrea Buti, su Ora Legale News
Credits: Isabella Quintana da Pixabay
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