La parola alla difesa

La parola alla difesa

Le parole della difesa penale e il confine del processo

di Iacopo Benevieri (Avvocato in Roma)

Nel 1593 fu pubblicato un libro enciclopedico, opera di un canonico, Tomaso Garzoni.
Si intitolava «La piazza universale di tutte le professioni del mondo» e conteneva la descrizione di oltre 400 mestieri, professioni e condizioni sociali (T. Garzoni, La piazza universale di tutte le professioni del mondo, a cura di P. Cherchi, B. Collina, Einaudi, 1996).
Nell’opera veniva rappresentata la piramide gerarchica di questi status sociali e ne veniva data rappresentazione simbolica collocandoli in una piazza ideale di fine Cinquecento.

Il centro della Piazza era riservato alle rappresentanze nobili e istituzionali della società: vi si descriveva il passeggio dell’aristocrazia e dei militari in alta uniforme.
Circondavano la Piazza le botteghe di artigiani e commercianti, le attività di “sentinelle” e “nutrici“, “prestigiatori” e “fornari“, “indovini” e “cortigiani“.
I margini della Piazza vengono definiti da Garzoni “i cantoni“.
Quei luoghi estremi venivano abitati dai soggetti più pericolosi, dai sobillatori del disordine: “i ladri”, i “rubatori”, i “marioli”, i “tagliaborse” e gli “assassini”, insomma quella «turba infame a comun danno unita» secondo le parole usate in una requisitoria tenuta il 6 settembre 1791 dal magistrato Cattanei di Momo davanti alla Corte d’appello di Mantova nei confronti di un gruppo di rapinatori.

A partire dalla metà del Cinquecento, infatti, nelle Piazze di tutti gli Stati italiani e d’Europa vengono affissi numerosi bandi proprio contro coloro che potevano costituire minaccia per la convivenza civile.
Si ordinava loro di abbandonare la città, di oltrepassare i perimetri più estremi della città e di oltrepassare fisicamente il confine della comunità civile, confine già superato con le loro condotte illecite:

«Bando che li vagabondi et altri perniciosi sgombrino et che se nettano le strade, et che li letami & immonditie si conduchino via» (Bando di Bologna, 13 Settembre 1574, in Zanardi, a cura di, «Bononia manifesta. Catalogo dei bandi, editti costituzioni e provvedimenti diversi, stampati nel XVI secolo per Bologna e il suo territorio», Firenze, Olschki, 1996).

Il segno della esclusione dalla comunità poteva consistere anche nella marchiatura sul corpo dell’interdetto: in numerosi bandi del Settecento era previsto che colui che non avesse rispettato l’ordine di allontanarsi dalla città dovesse essere marchiato a fuoco.
Il bando emanato nel 1764 a Firenze da Francesco Stefano di Lorena, per esempio, stabiliva che l’ordine di espulsione dalla città dovesse essere eseguito immediatamente, sotto pena per i disubbidienti «di essere pubblicamente frustati dal carnefice e di poi marcati in una spalla con ferro infuocato ed esitati in perpetuo dal Gran Ducato» (A. Dani, Vagabondi, zingari e mendicanti. Leggi toscane sulla marginalità sociale tra XVI e XVIII secolo, in Studi e Fonti di Storia toscana, 4, Firenze, Associazione di studi storici Elio Conti, 2018).

Nei secoli successivi gli strumenti di allontanamento del deviante rispetto alla Piazza civile si succederanno nelle varie forme della condanna alle galee, poi dell’internamento in case di correzione e infine della detenzione in carcere (Foucault, La società punitiva, Feltrinelli, 2016).

Dunque la configurazione di un perimetro “sicuro” contro la “turba infame” ha essenzialmente a che fare con l’attività di tracciamento di confini e di separazione di due territori, sia fisici, sia giuridici, sia sociali: confini di inclusione e di esclusione, confini di assegnazione di identità deviate definite sul profilo delle contrapposte identità ortodosse e viceversa.

La funzione del diritto e del processo penale si colloca idealmente, ma anche storicamente, in questo spazio di confine.
È lo spazio di confine.
Non è né dentro né fuori la civitas, bensì costituisce l’interzona di transito nella civitas tra lo “stato di natura” e lo “stato di cultura” (G. De Sanctis, La logica del confine. Per un’antropologia dello spazio nel mondo romano, Carocci, 2015, 105).

Quest’area di passaggio che è il processo, a differenza di altri confini umani, non separa ed esclude, bensì filtra e include il fatto atipico, deviato, conturbante l’ordine sociale.
La difesa penale, similmente, è tenuta a parlare il linguaggio inclusivo e non escludente, il linguaggio delle garanzie e non dei poteri.

Tutto questo, lungi dall’esser fantasticheria, trova stabili fondamenta nelle ragioni storiche che intrecciano la nascita delle istituzioni indoeuropee, come il diritto e il processo, e le parole utilizzate per descriverle.

La strada è segnata, basta percorrerla.

Se ci avventurassimo nelle ricerche degli antichi significati, quelli primari, di molte parole e ne scrostassimo lo spessore d’uso (la désignation, come scriveva Beneviste), ne riporteremmo alla luce insiemi lessicali coerenti, addensati intorno a nozioni centrali che ci consentono di avvicinarci al “senso”.

In questa ricerca delle origini del diritto e del processo, origini sociali, giuridiche e lessicali, incontriamo una radice lessicale, di origine indoeuropea, in particolare sanscrita: *Ṛt.
Da essa, nel corso dei millenni, sono gemmate parole apparentemente lontanissime tra loro: “diritto” e “rito“, ma anche “ritmo“, “arte” e “inerte“.
Nel comprendere il legame che le unisce, risaliremo al “senso” del processo e al ruolo che avvocate e avvocati vi esercitano.

Dalla radice *Ṛt deriva, innazitutto, “rythmòs“, che secondo l’uomo antico indicava il movimento, lo scorrere degli eventi umani e naturali. Il movimento degli eventi era inteso come un fluire continuo, nel quale i singoli accadimenti non perdevano la propria eccentrica complessità pur diventando unità nel flusso, secondo una cadenza e una direzione.

Dalla medesima radice sanscrita discende anche il termine “arte”, che al “rythmòs” è connessa, laddove si consideri come nelle prime civiltà stanziali le originarie forme d’arte erano costituite da arcaiche rappresentazioni teatrali nelle quali, appunto, i movimenti del corpo erano attuati secondo un certo ritmo e con un preciso ordine rituale.

“Inerte”, di converso, indica quel corpo ormai privo di “arte”, cioè di un proprio movimento coerente e ordinato con il mondo.

La radice indoeuropea ha prodotto anche il termine “rito”, che indica un progressivo succedersi di atti, con una cadenza e con un ritmo ordinati e, infine, la parola “diritto”, che indica quell’attività umana che, come il ritmo e l’arte, conferisce un ordine al movimento e al divenire continuo del Mondo (C. Sini, Idioma, Jaca Book, 2021).

Da questa biografia etimologica si comprende l’identità del diritto e del processo, che per ordinare il Mondo deve comprenderlo (cioè prenderlo in sé) nella sua totalità, con le eccezioni e le eccentricità di ogni singolo accadimento, includendole e non espellendole.

Questa la ragione per la quale il diritto viene rappresentato nella simbologia antica come un confine poroso e non come un muro.

In quanto confine, esso indica un limite sempre permeabile, che segna sì due spazi ma che può essere sempre attraversato, cosicché l’estraneo e l’escluso, attraversando quel confine, può diventare incluso e intraneo.
Luogo di transito sempre aperto, nel quale la difesa accompagna e tutela la corretta applicazione delle garanzie, cioè delle regole di inclusione.

In questa idea del diritto come luogo del transito dall’esclusione del bando sociale alla inclusione nella società risiede la storia dei termini latini che indicano “ospitalità” e “ostilità“: “hospes” e “hostis“.

Nella centrale opera di Emile Beneviste, “Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee” si apprende come nel periodo iniziale della comunità di Roma antica (900 – 800 a.C.) la società fosse costituita non già da città, bensì dalle gentes, cioè da gruppi familiari più o meno ampi, riuniti in capanne.
In quella epoca originaria si ricorreva solo a un vocabolo per indicare la persona che proveniva dall’esterno del confine della propria gens: hostis.

La parola, dunque, non significava “nemico” ma “ospite”.
Hostis era chi, oltrepassando il confine, veniva accolto dalla gens a condizione che rispettasse gli usi che regolavano il passaggio.
Il confine segnava l’insieme delle pratiche di ammissione e di inclusione dell’hostis, secondo mutui scambi e doni, pratiche che costituivano un vero diritto regolatore.
Il lemma fotografa una visione del diritto come *Ṛt: organizzatore del continuo ritmo del divenire tramite pratiche di inclusione.

Con il mutamento politico della società, tra l’800 e il 700 a.C., si registra un mutamento urbanistico e un corrispondente mutamento terminologico. Dalla fase proto-urbana si arriva alla fase della Urbs.
Vengono eretti muri a difesa del perimetro sociale e quel confine da inclusivo diventa esclusivo ed escludente.
Ne abbiamo traccia archeologica nel muro che fu eretto ai piedi del colle Palatino a Roma.
Si trattava di una fortificazione chiusa dotata solo di un varco per l’accesso, sorvegliato da una camera di guardia armata.
Gli archeologi sono concordi nel ritenere che quella rudimentale fortificazione fosse il pomerium, una sorta di confine giuridico-sacrale-territoriale dei primi insediamenti urbanizzati di Roma (A. Castiello, Il pomerium e l’identità romana: un legame più forte del sangue, in In limine. Esplorazioni attorno all’idea di confine, a cura di F. Calzolaio, E. Petrocchi, M. Valisano, A. Zubani, Ca’Foscari, 2017, n. 9, p. 23).

Oltre quel pomerio, regnava l’esclusione ed era legittimo usare le armi. Le stesse pene dovevano essere eseguite fuori dal pomerium, con la conseguenza che il condannato diventava “esule” nel senso etimologico del termine di chi abbandona il suolo protetto della collettività.
La pratica del bando della “turba infame” ha origine in questo momento.

Con l’erezione di confini fortificati e di muri, dunque, il termine hostis assume il significato di “nemico“, come colui che è interdetto dall’attraversare il confine, obbligato a restarne al di là, in una relazione di esclusione dalla civitas.
Con l’erezione di confini fortificati e di muri il diritto muta finalità e regola le pratiche di esclusione anziché quelle di inclusione.

La difesa penale è sempre stata legata a questa realtà lessicale e a queste origini storiche e ha sempre risentito del diverso atteggiarsi dell’ordinamento e del processo come momento che regola l’inclusione, dunque anche il recupero sociale del condannato, ovvero come pratica che disciplina la esclusione, il bando.

Nell’epoca della prima inquisizione, quella medioevale, nella quale il processo era instrumentum regni, cioè pratica istituzionale di pubblica esclusione ed espulsione, la difesa era ridotta ad assistere muta al compiersi della cacciata della turba infame dalla società.

Il Concilio di Beziers nel 1246, pur prevedendo che gli eretici avessero il diritto a esser assistiti da un difensore, affermava che l’avvocato doveva necessariamente condividere, per difenderlo, le opinioni del suo cliente.

Nell’epoca dei diritti del processo accusatorio, quel confine rappresenta il momento della inclusione, della regolazione delle garanzie per l’ingresso e non per l’espulsione dell’eterodosso e del deviante.

Le avvocate e gli avvocati penalisti abitano dunque quell’area di confine, quella zona ombratile nella quale entrano eventi e protagonisti “eretici” rispetto all’ordine sociale.

La difesa ne accompagna il processo di inclusione, di transito, regolato da diritti e garanzie.

In quello spazio di confine dove il molteplice e l’eccentricità dei fatti vengono veicolati e riordinati, in quello spazio che è lo spazio del processo, la difesa penale parla dunque il linguaggio che riconosce tali diversità, il linguaggio del confine permeabile, sempre attraversabile, il lessico dell’osmosi: sia perché nel processo l’eretico viene ascoltato, sia perché anche l’eretico, quand’anche condannato, non sarà mai espulso dalla società e potrà sempre riattraversare il confine.
L’articolo 27 della Costituzione, al comma 2, nel sancire il principio di non colpevolezza e, al comma 3, nel prevedere la funzione rieducativa della pena, si fonda su questa funzione del diritto e del processo non come muro che espelle l’altro in quanto hostis, bensì come strumento costante di inclusione dell’altro in quanto hospes.

Questo il linguaggio costituzionalmente orientato che deva parlare la difesa.

Credits: Enzo Varricchio da Barbara Kruger bildungs… Neue Nationalgalerie, Berlin 2022

di Iacopo Benevieri, su Ora Legale News

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