
La scienza delle donne
di Silvia Camisasca (Fisica e Giornalista)
In questi ultimi mesi, per il progetto di cui sono stata coprotagonista con Global Thinking Foundation e per la nomina ad Equity Diversity and Inclusion Officer della neonata ItalianRSA (Italian Research Staff Association), che vede tra i propri autorevoli membri alcune delle scienziate intervenute con me nei podcast, mi sono ritrovata a riflettere con una discreta insistenza su una costante del mio percorso: un tema che mi accompagna dal 1995 (anno di iscrizione, dopo la maturità classica, alla facoltà di fisica), ma che, ben prima, avevo già presente.
Mi riferisco all’eterna irrisolta faccenda del gender gap, ovvero delle disuguaglianze di genere; uso volutamente il termine “disuguaglianze”, che indica differenze di risorse disponibili e possibilità di accesso, e non parlo di “differenze” tout court, che si limita al diritto alla diversità.
Mi riferisco alla forma preoccupante che assume la mancata integrazione tra donne e uomini nell’ambito delle discipline tecnico-scientifiche, benché la sottorappresentanza femminile, stratificata in ogni settore della vita sociale, politica e culturale del nostro Paese (in particolare) e a livello globale (in generale) sia all’origine di pregiudizi, ingiustizia sociale, assenza di meritocrazia, involuzione socio-culturale, mancanza di opportunità di crescita (non solo per le donne e, non in ultimo, anche in termini di PIL) e impossibilità di sviluppo, a livello territoriale e regionale, di nord e sud del pianeta.
Mi riferisco all’incapacità o non volontà (o entrambe) di realizzare misure di contrasto alle disparità e mi riferisco al sovrabbondante dibattito, a cicli alterni up and down, relativo ad eventuali quote cromatiche o numeriche, bastevoli, nella mente di qualcuno, a sedare istinti ribelli.
Mi riferisco ai vari tetti di cristallo che, lungi dall’essere sfondati, talvolta paiono inspessirsi.
Mi riferisco ai diritti, nemmeno più rivendicati, per scansare accuse di vittimismo.
Potrei, infine, riferirmi alla guerra (una delle tante) di questo ultimo mese in cui, come tutti i conflitti, donne e bambini pagano il prezzo maggiore, ma a deciderle, sulla loro pelle, sono i livelli, gravemente predominanti, di testosterone.
Nella stanza dei bottoni, come in quella delle divise, si parla una lingua da “uomini”: si negozia, si tratta, si baratta, si recita una tragedia, quella bellica, tutta al maschile. La lingua del potere, quello male usato, è prettamente machista.
Non condanno chi la parla, ne osservo piuttosto l’inadeguatezza, l’incompatibilità con le emergenze del momento, la puerilità rispetto alla portata delle sfide.
Una arroganza tale da rendere ciechi di fronte al fallimento generato da un potere prevaricante, egoistico e fine a sé stesso, a tal punto da perdere di vista il fine di sé stesso; “potere“: infinito della voce del verbo “posso”, libertà di azione, decisione, cambiamento.
E, ricordando l’Art 3 della nostra (assai bella!) Carta Costituzionale, osservo che tale lingua non è nemmeno quella dei diritti sanciti nelle civiltà democratiche.
Essi racchiudono l’ambizione di garantire che gli interessi di uomini e donne siano equamente tenuti in considerazione, il che comporta, ad esempio, evitare ogni forma di segregazione nel mercato del lavoro e nelle carriere, comprese quelle STEM.
Oggi, invece, accade che le donne hanno quasi raggiunto la parità nelle posizioni di laureate al livello di dottorato (48%), ma sono sottorappresentate nelle professioni tecniche (25%), soprattutto in quelle scientifiche e ingegneristiche (S&E) e delle Tecnologie della Comunicazione e della Informazione (Commissione Europea, She Figures 2021).
Sono punte di un iceberg che schiaccia (tutti) a fondo e, dal fondo, torna a galla il risultato: povertà educativa, divario territoriale, immobilità intergenerazionale, basso ritorno dell’investimento in istruzione e un tessuto produttivo scarsamente interessato a premiare (e adeguatamente remunerare) competenze avanzate. E, così, la bell’Italia non stimola, non incentiva, non riconosce, non capitalizza (e perde) il talento della nostra “meglio gioventù”. E delle donne.
Ora, però, siamo ad un bivio della storia straordinario quanto delicato: oltre la metà delle professioni del prossimo decennio non esistono ancora e richiederanno competenze STEM. Non possiamo permetterci di ipotizzare un capitale umano se non nel perimetro dell’inclusione, di genere e disciplinare, in particolare, nell’ambito delle aree emergenti (Scienza, tecnologia, Ingegneria, Matematica, Medicina, Digitale, Cybersecurity) in cui maggiore è il potenziale di crescita, in termini di carriere e salariali.
In un mondo in cui le disuguaglianze aumentano, ma che è anche in piena trasformazione, la sfida delle pari opportunità non può aspettare.
È una sfida che passa dalla scienza, “abilitatrice di futuro”’: restare indietro significa restare fuori dagli spazi in cui si immagina e progetta il domani.
Se le bambine si convincono di non “essere portate”, avremo fallito, dal punto di vista pedagogico e familiare: se non sono portate, è nostro compito – come genitori, educatori, comunità, Paese – portarcele. Potrebbe essere questa la formula per la ripresa.
“Il futuro è in noi prima che accada”
(Rainer Maria Rilke, Praga 1875- Muzot 1926)
qui ed ora decidiamo il futuro che sarà nella Next Generation (che è già qua e non è una categoria kantiana) prima che accada.
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Image credit: Gerhard G. da Pixabay
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