Giustizia con la "R"

Giustizia con la “R”

Giustizia riparativa: deporre la sofferenza, difendere senza offendere

di Stefania Amato (Avvocata in Brescia)

È accaduto ancora ed è, ogni volta, un disagio forte.
In un’aula di giustizia serpeggia, a mala pena trattenuta, la rabbia dei familiari di persone rimaste uccise: in questo caso nel disastro ferroviario di Viareggio. Addirittura c’è chi volge le spalle alla Corte d’Appello e il presidente deve richiamare tutti all’ordine.
È il 1° luglio 2022, siamo a Firenze, motivo della tensione le dichiarazioni rese in aula dall’imputato Moretti.

Due settimane dopo, a Cassino, ancora uno scoppio d’ira alla lettura della sentenza che assolve tutti gli imputati dell’omicidio di Serena Mollicone, a più di vent’anni dal fatto: devono intervenire le forze dell’ordine per evitare l’aggressione fisica di chi è appena stato assolto.

Vicende note, oggetto di grande attenzione mediatica; ma scene come queste ricorrono spesso nelle aule dei tribunali, alla conclusione delle tante vicende dolorose e meno conosciute in cui qualcuno ha perso la vita, o si è fatto molto male.
Le telecamere inquadrano i volti tirati dei difensori per i quali la sentenza è una disfatta, perché difendono le parti civili e l’imputato è stato assolto. Oppure sono i difensori dell’imputato che ha appena sentito pronunciare la parola terribile: ergastolo.

Ma io qui vorrei parlare degli altri.

Vorrei fissare l’obiettivo sul difensore che ha “vinto”: il suo assistito è assolto.
L’accusa era pesante, la richiesta del PM conseguente, il processo indiziario e difficile: tanto studio, dubbi sulle giuste scelte processuali, peso della responsabilità. Arriva l’assoluzione, o, magari, una derubricazione (omicidio preterintenzionale o colposo anziché volontario), un sollievo grande, professionalmente un successo.
Ma. Le parti civili, alla lettura del dispositivo della sentenza, non ce la fanno. Forse sono impreparate alla possibilità di quell’esito; forse mancano loro gli strumenti per capire, lì, in quel momento, il significato della decisione. O, semplicemente, il dolore di una perdita troppo grande, rinnovato e acuito, le travolge. E allora gridano e insultano: non c’è altro sfogo, adesso, non esiste altra strada per la sofferenza, la frustrazione.

La parola alla difesa? Non ora: la difesa tace, divisa in due.
La soddisfazione è grande: lo sguardo quasi incredulo dell’assistito, che si riappropria di una speranza per il proprio futuro, ripaga da ogni fatica, ma è difficile rimanere saldi se ti raggiungono le onde della rabbia di chi urla che non ha avuto giustizia e insulta anche te, difensore che hai fatto il tuo lavoro, ti sei impegnato per il rispetto delle regole, hai cercato di rispettare sempre il dolore di chi ti sta insultando, e vai ripetendo come un mantra ad amici e conoscenti che ti interrogano che tu difendi l’uomo, non il reato che ha commesso.

Ed è allora che ti viene in mente che forse una parola c’è,

forse un orizzonte nuovo può essere esplorato con fiducia, senza pregiudizi, concedendo almeno una possibilità all’idea rivoluzionaria che si sta affacciando oggi alla soglia del nostro sistema penale: la parola è “riparazione”.
La “giustizia con la R”: giustizia riparativa perché non persegue una risposta meramente punitiva al reato, ma consiste in «ogni percorso o processo che consente alle persone che subiscono pregiudizio a seguito di un reato e a quelle responsabili di tale pregiudizio, se vi acconsentono liberamente, di partecipare attivamente alla risoluzione delle questioni derivanti dall’illecito, attraverso l’aiuto di un soggetto terzo formato e imparziale» (così la definizione contenuta nella Raccomandazione 2018 n. 8 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa).

A giorni conosceremo il testo del decreto delegato cui ha lavorato intensamente per mesi uno dei gruppi di lavoro costituiti dalla Ministra della Giustizia Marta Cartabia per dare esecuzione alla parte di delega dedicata all’introduzione di una disciplina organica della giustizia riparativa nell’ordinamento italiano, prevista dal comma 18 dell’art. 1 della L. 27 settembre 2021 n. 134.

Si tratta di una novità concettualmente dirompente, sebbene sia ipotizzabile che prudenza e lungimiranza dei promotori garantiranno un’introduzione soft di questo strumento potenzialmente straordinario, ma foriero di delicatissime implicazioni laddove inserito, come si vuol fare, in un sistema tradizionalmente impermeabile alle aspettative delle vittime di reato.

Già prima della pubblicazione della bozza di decreto si vedono erigere barricate culturali, prima che processuali.
Incontro autore – vittima di reato?
Come, quando, con che conseguenze?
Con che compatibilità con l’intento acceleratore dei tempi del processo dichiarato dalla riforma? Con quale ruolo per il difensore?
Con che impatto sulla genuinità della prova?

Già la parola “vittima” fa alzare sopraccigli, quando inserita nel contesto di un processo improntato alla presunzione di innocenza e il movimento culturale che da decenni ormai promuove e sostiene l’introduzione della Restorative Justice in Italia è avversato da chi ritiene non importabili nel nostro sistema esperienze storiche uniche e particolarissime, come quella della Commissione per la Verità e la Riconciliazione in Sudafrica.

Sia ben chiaro: perplessità, dubbi, resistenze dinnanzi alla prospettiva di un ruolo della vittima sono legittimi e appartengono a tutti noi, strenui difensori del processo accusatorio, intrisi dei principi dello Stato liberale, increduli e disgustati dinnanzi a sistemi giuridici che ancora oggi, in talune parti del pianeta, nel perpetuare logiche tribali demandano ai parenti delle vittime del reato decisioni sul destino degli imputati.

Lasciata ben salda nelle mani dello Stato la risposta alla commissione del reato, da intendersi come individuazione, punizione e reinserimento sociale del colpevole, nel rispetto dei principi costituzionali, vorremmo però vedere alla prova dei fatti questo spazio nuovo, “altro” dal processo ma che con il processo avrà punti di contatto, spazio di incontro e reciproco riconoscimento tra esseri umani che dovrebbe consentire di accantonare, almeno temporaneamente, i rispettivi ruoli di autore del reato e di offeso, per arrivare ad una comprensione profonda di ciò che è accaduto.

Si è appena concluso, a Parigi, il processo per le stragi della notte del Bataclan.

Un’impresa colossale per lo Stato francese, un anno di dibattimento serrato in cui l’attenzione per le vittime è stata volutamente enorme, allo stesso tempo capillare dal punto di vista organizzativo, delicatissima nel rispetto dei desideri dei singoli, spasmodicamente orientata a concedere ai parenti dei morti e ai feriti ogni attenzione e “soddisfazione” possibile.
Tra le cronache che ci sono giunte attraverso i media lo straordinario reportage di Emmanuel Carrére, del quale colpisce questa osservazione, che riporta le parole di un difensore di parte civile:

«per molte vittime è stato un sollievo poter deporre in aula, perché hanno avuto appunto l’impressione di deporre qualcosa. Una sofferenza, un fardello che chi li ascoltava ha saputo accogliere. Molte di loro ne sono uscite alleggerite, almeno un poco. Se anche il processo fosse servito solo a questo, sarebbe già qualcosa».

Carrère è troppo intelligente per non cogliere (e lo fa) che, però, non è a quello che deve servire un processo; che, anzi, spesso è per le vittime solo occasione di nuova sofferenza e frustrazione.

Per questo c’è bisogno di altro: di una risposta vera e diversa, che forse può venire da un orizzonte nuovo, da un incontro.
Se le parole troveranno il loro spazio e, con l’aiuto di chi sa mettere in contatto e in ascolto, la ferita causata dal reato avrà almeno iniziato a rimarginarsi, forse un’assoluzione o una pena mite non saranno più bollate come un’ingiustizia; forse non dovremo più sentire quelle grida.

Credits: Patrick Tuttofuoco, Endless Sunset

Di Stefania Amato, su Ora Legale News

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