Che c’è ancora di bello là fuori

Che c’è ancora di bello là fuori

di Tiziana Nuzzo (Avvocata)

Inverno, qualche anno fa.
Una persona mi chiese, improvvisamente, di fargli visita, in carcere.
Una persona, sì.
Non ho voglia di chiamarla “assistito” o, peggio, “cliente”, quindi non lo farò.
Una persona cui una semplice lettera non bastava, non era sufficiente a spiegare, con poche o pur molte parole, il peso che aveva dentro.
Mi diedi questa spiegazione. Non sbagliai.
Un viaggio lungo, decisi di affrontarlo in treno.
È qui che la mente torna libera, sporgendo i suoi occhi curiosi al di là del finestrino appannato dal respiro, che diventa quasi nebbia, sui vetri.

E d’improvviso il tempo si accorcia, arrivi a destinazione con ancora tante domande nella testa. E poche risposte. Perché non sempre tutto ce l’ha, una risposta. Non quella che vorresti, almeno. Non quella giusta.
Le carceri sono tutte uguali, ti si parano davanti maestose e tu capisci che là dentro tutto, davvero tutto, può accadere. Tutto, tranne la vita.

Ugo – lo chiamerò così, d‘ora in poi, con un nome di fantasia, perché la fantasia fu la prima ad essergli scippata, dopo la libertà – era quello di sempre. Piccolo, magro, un mucchietto di ossa senza carne intorno ma con muscoli e tendini a vista.
Un tempo questa sua corporatura gli fu alleata, era una scheggia nella fuga. E ce ne furono tante, di fughe.
No, non era cambiato. I suoi occhi sì, invece. Avevano perso l’azzurro del cielo per diluirsi in un grigio senza fondo né tempo. Senza luce. Senza profondità. Stretti, quasi una fessura, si posarono su di me. Come una lama.

Come sta, avvocato?”
Strana la vita, dissi tra me e me. Avrei dovuto chiederlo prima io.
Invece fu lui, il primo. Lui, che avrebbe potuto fregarsene della salute degli altri, non avendo più la sua.
Sono qui, Ugo. Sono qui.
Come si può essere rassicuranti con chi non sa più cosa significhi essere rassicurato?
Non feci in tempo a darmi la risposta. Da quel momento in poi il tempo – e non ne avevamo molto a disposizione – smise di scandire i minuti e iniziò il suo valzer lento. Intorno e dentro di noi.

Era un artista, Ugo. Fuori. Dipingeva splendidamente. Filtrava il mondo coi suoi occhi stretti e oblunghi, poi gli dava nuova forma. Non necessariamente astratta, ma nuova. Come se attraverso pennelli e colori volesse veder altro, intorno a sé.
No, non era bello il suo mondo, quello in cui era vissuto.
Famiglia numerosa, un padre mangiato dall’alcool e una madre che di notte spariva. Ingoiata dal buio, per tornare la mattina dopo.
Con qualche livido in più sul corpo, mangiato da uomini perennemente affamati. Pochi spiccioli per la spesa. Tanto pane, niente carne. Niente dolci, niente frutta. Niente natale, niente compleanni, niente feste intorno a tavole imbandite.
Solo liti. Urla. Violenza. Pianto. Fame.

Poi la strada che chiama, a gran voce. Lei, sempre lei. Maestra, nel bene come nel male.
E il male si fece avanti, nella vita di Ugo, appena tredicenne. Piccoli furti, qualche scippo.
Poca roba”, direbbe suo padre, se non fosse passato a miglior vita.
Poi la droga, lo spaccio, “il ferro” nei pantaloni, la morte nell’anima. E da lì in poi, il nulla. Dentro.
Fu un galoppare senza fine. E lo portò lontano. Fino a non tornare più.
Le porte del carcere si aprivano e chiudevano senza sosta, per lui. Poi smisero di aprirsi e fu prigionia. Prigionia vera.

Non riesco più a dipingere, dimmi tu cosa c’è ancora di bello, là fuori”.

Eccola qui, la domanda. E tu non sai cosa rispondere. Non lo sai perché lui non ha avuto, non ha mai avuto, quel che hai avuto tu. Una vita. Una vita vera. Da guardare, da respirare, da vivere davvero, da colorare.
La sua fantasia, questo aveva. Nulla più. Quella che gli riportava la madre a casa di notte, che la faceva stendere accanto a lui nel letto, che lo cullava. Quasi avesse braccia in cui rannicchiarsi. Calde più di una coperta.
No, non pensai alla depressione. Era qualcosa in più, la sua. Era disperazione. Un abbandonarsi al nulla.
E il nulla rimbomba, in carcere. Schizza sui muri. Si arrampica sulle sbarre. Cola sulla tua pelle, come sangue da una eterna ferita.

Gli aveva succhiato tutto, il carcere. L’azzurro degli occhi, il rosa della carne.
Aveva il colore di un morto, in viso.
Può lo spirito evaporare da un corpo? Può davvero lasciarti cadere, come un sacco vuoto, per terra? Sì. Può. Sapeva, Ugo, di non poter tornare in libertà. Ma quel che non sapeva era come lavare la sua macchia. Come salvare il suo animo, là dentro.
Non esco durante l’ora d’aria. Mi pesa troppo poi tornare in cella”.
Il cielo era troppo, per lui.

Capii allora che qualunque cosa avessi detto non avrebbe ricucito il suo squarcio, non gli avrebbe restituito tela colore e pennelli.
Capii quella volta, come tutte le altre volte che feci ingresso nelle carceri, che la cella non avrebbe reso quest’uomo migliore. Non lo avrebbe aiutato.
Perché per rendere un uomo migliore devi dargli ciò che non ha avuto. Fuori. Un lavoro. Un’istruzione. Un sostegno. Una famiglia. Una opportunità. Una passione. La dignità. La speranza. La forza, quella vera, che non ha nulla a che fare con quella fisica. L’amore. Una finestra sul mondo, da cui poter vedere il mare, il cielo, il paesaggio che cambia sotto i tuoi occhi e così sognare, appannando i vetri col tuo respiro.

Non riesci a sognare, in carcere. Nemmeno questo puoi fare. Tra notti che durano troppo e incubi che spuntano da sotto la branda. Poi ti afferrano una caviglia e ti tirano giù. In quel metro quadro dove sei costretto a vivere e morire.
Non mi chiese di tornare in libertà, Ugo. Forse non ricordava nemmeno cosa fosse, la libertà. Non l’aveva amai avuta davvero, la libertà.
Perché non ce l’hai, non puoi averla, quando non hai scampo. Quando la tua strada è ormai segnata. Da altri che poi mettono te, nelle orme lasciate dai loro passi. E tu cresci così, non sapendo cosa è il bene e cosa è il male. No, non mi chiese di tornare in libertà.
Mi chiese come poter fare per sentirsi ancora vivo.
Sarebbe stato più facile, molto più facile, abbattere quei muri, allargare quelle sbarre, oliare quella porta che cigolava fino a sfondargli le orecchie, scardinarla e poi portarla via, sulle spalle, con me. Per sempre.

Image credit: 종덕 지 da Pixabay

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