
Questione di leadership
di Anna Losurdo
Nel mezzo dell’inverno, potreste scoprire l’estate invincibile in voi
Albert Camus
La relazione fra donne e business non è solo questione di diritti delle donne, ma questione anche di produttività. Lo ripete, di continuo, anche il Fondo monetario internazionale.
La ragione è semplice: se cresce l’occupazione femminile cresce la produttività delle imprese e, quindi, cresce il PIL. Semplice, eppure…
Quello della leadership femminile è tema complicato da affrontare, perché contiene in sé una connotazione di irregolarità che è il portato di secoli di esclusione delle donne dai luoghi di potere.
Anche oggi, che sempre con maggiore frequenza qualcuna riesce a rompere il soffitto di cristallo (che appare ormai incrinato in più punti, ma stenta a crollare definitivamente perché dotato di meccanismi conservativi di rigenerazione) ma spesso le schegge tendono a ricadere sulle altre.
Emancipazione dovrebbe voler dire non dover più sottolineare l’essere donna, ma riuscire a valorizzarne lo sguardo diverso e complementare su politica, economia, ecc. e quindi sulla vita individuale e collettiva.
Dobbiamo imparare a utilizzare la dissonanza cognitiva: tenere separati i ruoli genitoriali da quelli professionali nel valutare l’attività degli uomini e delle donne sia nell’ambito politico sia in quello lavorativo.
Va comunque riconosciuto il valore simbolico di un ruolo prestigioso ricoperto da una donna.
Non solo perché le altre donne, e ancor più le più giovani e le bambine, ma soprattutto gli uomini, comincino a pensare che sia una eventualità possibile.
Ma anche perché ci si convinca che valga la pena impegnarsi perché succeda di nuovo.
La questione, però, resta aperta a una lettura ambivalente.
Donne che accedono al potere non per aprire la strada alle altre e che rivendicano un successo personale, da attribuire anche alla capacità di competere con gli uomini, non sembrano, però, in grado di innescare il meccanismo di identificazione reciproca.
Appaiono, piuttosto, come modelli individualistici di emancipazione che non promuovono alcun empowerment collettivo.
Se queste donne non ci rappresentano, ed essere donne non basta per creare alleanze, è forse dovuto all’essere eccessivamente intransigenti le une verso le altre. O al timore della nostra e della altrui ambizione a guadagnare posizioni di vertice, che accettiamo come naturale negli uomini.
Oppure, ancora, all’aver introiettato così tanto lo stigma del dover sempre dimostrare maggior capacità rispetto agli uomini che nessuna ci sembra abbastanza capace e degna della nostra fiducia.
Non riusciamo a riconoscere la capacità delle singole donne di fare la differenza.
Eppure se solo si riuscissero ad aumentare fiducia e stima reciproche si diventerebbe più forti anche agli occhi degli uomini.
Ciò senza che si finisca con il negare che ci sia una forza femminile che ha trasformato il nostro Paese, rimuovendo la storia di chi ci ha precedute e i persistenti ostacoli strutturali, svilendo anche gli strumenti di riequilibrio di genere nella rappresentanza introdotti in applicazione della Costituzione.
E con l’assurda eterogenesi dei fini di un ulteriore rallentamento sulla via della parità.
Le donne sono in grado di esercitare la leadership tanto quanto gli uomini, sebbene la percezione diffusa sia che debbano avere caratteristiche maschili. Di stereotipo in stereotipo, le donne sono sempre in fase dimostrativa: dimostrare continuamente il proprio valore emulando comportamenti “maschili” per essere considerate competenti.
Alcune ce la fanno e finiscono con l’usare contro le altre gli stessi comportamenti che hanno ostacolato il loro percorso.
Il fenomeno prendeva il nome di sindrome dell’ape regina (queen bee, fu definito nel 1973 da alcuni studiosi). Non esiste una espressione equivalente per un uomo che si comporti allo stesso modo e che viene definito, semplicemente, competitivo.
Questi comportamenti si verificano soprattutto in ambiti dominati dagli uomini, in cui il sessismo è tangibile e le donne sono abitualmente svalutate, tanto da essere portate a dissimulare il fatto di essere donne, prendendo le distanze dal gruppo di appartenenza.
Per questo la definizione, cinquant’anni dopo, suona sessista e frutto di pregiudizi di genere.
In questi casi dovremmo parlare genericamente di cattiva leadership per chiunque e non guardare a questi comportamenti con la lente di bias cognitivi inconsapevoli.
In realtà è possibile sfuggire alla tentazione imitativa di modelli precostituiti e ormai superati.
Tra quelli più recenti c’è la leadership situazionale: non si possono gestire persone diverse in modo uguale.
Un altro modello è quello della cosiddetta spinta gentile, sebbene l’approccio sia un tantino manipolatorio e paternalistico.
Un terzo modello è quello della leadership supportiva basata sulla necessaria capacità di cambiare le situazioni non soddisfacenti. Modello in grado di superare lo stereotipo della fragilità, ritenuto caratteristica femminile e due tendenze diffuse, ossia il perfezionismo e la critica di ciò che non va invece di valorizzare ciò che funziona.
Una leadership moderna sa che il successo è uno sforzo comune, che si raggiunge con il supporto reciproco, in un ambiente di lavoro inclusivo in partenza, dove si premiano i comportamenti e non solo i risultati. L’organizzazione aziendale a piramide gerarchica è ormai vieppiù superata; sostituita da quella in piccoli team con focus specifici, inclusivi e composti da persone di diverse età, formazione, caratteristiche professionali, guidati da team leader ai quali delegare decisioni e responsabilità specifiche.
Una dirigenza basata sulla fiducia e sulla responsabilità che non cerca seguaci, ma che forma altri leader. Uno stile che può essere sia maschile sia femminile.
Insomma, una teoria di governo che non sia mera amministrazione del comando.
Credits: Gerd Altmann da Pixabay
Di Anna Losurdo, su Ora Legale News
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