
Quale avvocato per la crisi famigliare
di Isabella De Bellis Sciarra (Avvocata in Perugia)
L’Avvocato che si occupa di diritto di famiglia sa che il cliente butta sul tavolo tutta la propria sofferenza, la carne viva incisa da una crisi dove è sempre sfumato, comunque in ombra, chi sia la vittima e chi il carnefice della disgregazione familiare, in altri termini l’autore morale e materiale della separazione.
A parte situazioni estreme di violenza o sopraffazione, sappiamo che spesso, se non larga misura, la responsabilità è di entrambi i protagonisti del consorzio familiare e sappiamo anche che le uniche vittime, in caso di aspro contenzioso, sono i figli minori, stretti nel conflitto.
Le controversie in materia familiare, proprio gli interessi in gioco, per le sofferenze che determinano, assumono quindi una rilevanza pubblica e in tale ambito il ruolo dell’avvocato, soprattutto quando sono coinvolti figli minori, è particolarmente delicato non limitato alla sola tutela degli interessi del proprio assistito, dovendo invece ispirare il proprio comportamento a criteri di responsabilità etica e sociale.
Compito dell’avvocato è quindi quello di adottare criteri rigorosi e tutele particolari, a salvaguardia dell’interesse dei figli minori, con l’obiettivo di preservare per quanto possibile i legami familiari.
A differenza infatti delle controversie ordinarie, dove la prestazione professionale è mirata a far raggiungere alla parte assistita il miglior risultato possibile (pensiamo al caso di una azione di risarcimento dei danni, o di regolamento confini oppure in materia condominiale, dove la prestazione dell’avvocato è orientata a far si che il proprio cliente veda riconosciuto il diritto fatto valere in giudizio) indipendentemente dalle conseguenze che possono derivare alla controparte, nelle controversie familiari, l’avvocato ha il dovere di valutare e rappresentare al proprio assistito le conseguenze che nelle relazioni familiari sono suscettibili di determinare certe scelte difensive.
In questa materia non è infatti sufficiente che l’avvocato conosca i principi di base della separazione o del divorzio, le regole cui è improntato il processo separativo o divorzile o che rispetti formalmente le procedure relative alla prestazione professionale, come nel caso di controversie ordinarie.
Nell’ambito del diritto di famiglia, proprio per la funzione sociale che l’avvocato è chiamato ad assolvere, sono richieste competenze diverse e il suo principale dovere non è quello – e comunque non solo quello – di difendere i diritti e gli interessi della parte assistita, ma di tenere in considerazione, e di rappresentare al cliente, le possibili conseguenze che possono derivare agli altri soggetti coinvolti nella vicenda separativa.
In materia familiare, dove sono presenti figli minori, un approccio che tenga conto solo delle aspettative del cliente rischia di portare a scelte operative sbagliate, che potrebbero rivelarsi nel tempo controproducenti per la famiglia ed anche per la stessa parte assistita.
Pensiamo al caso di un cliente che intende, per rancori personali verso l’ex coniuge, marginalizzare l’altra figura genitoriale, chiedendo all’avvocato di mirare la propria difesa a far sì che il figlio stia il meno possibile con l’altro genitore, in alcuni casi opponendosi drasticamente anche alla possibilità che il figlio pernotti con l’altro genitore.
In questo caso è dovere dell’Avvocato rappresentare al cliente le conseguenze di una tale scelta, cioè che i figli per una crescita sana ed equilibrata hanno necessità di confrontarsi con entrambe le figure genitoriali e che nel tempo l’altro genitore, sfiancato da un contenzioso lungo e costoso, potrebbe allontanarsi dal figlio e una gestione quasi esclusiva del figlio potrebbe comportare un sovraccarico di responsabilità, suscettibile di schiacciare quello stesso genitore che l’ha pervicacemente rivendicata.
Oppure pensiamo al legale che nella causa di separazione assiste il coniuge economicamente più debole.
Secondo i normali criteri l’avvocato dovrebbe perseguire l’obiettivo di ottenere il massimo importo per il proprio cliente.
Tale soluzione potrebbe però nel tempo rivelarsi pregiudizievole qualora il coniuge onerato non fosse in grado di sostenere un impegno economico gravoso ed elevato subendo conseguenze negative magari nel proprio lavoro e infine dannose per i beneficiari del contributo economico – moglie e figli – costretti ad azioni esecutive, nocive anche dal punto di vista delle relazioni.
Ecco che uno dei primi doveri dell’avvocato è quello di valutare l’impatto che certe strategie processuali possono determinare nel contesto familiare, perché la sua principale funzione è quella di adoperarsi, per quanto possibile, nel preservare i legami familiari.
L’avvocato in materia di famiglia non dovrà rivestire la funzione di tutore, di braccio armato dei desideri e delle aspettative della parte che assiste, ma fermo il proprio ruolo di difensore della parte, deve esercitare quello principale di agevolare, per quanto possibile, la soluzione consensuale della crisi familiare, soprattutto nell’interesse dei figli minori, tenendo conto del fatto che questi, oltre alla sofferenza per la separazione dei loro genitori, al cambiamento delle loro consuetudini di vita, non devono sommare anche le conseguenze di una aspra conflittualità tra i loro genitori.
E’ necessario quindi, pur con tutta la comprensione per la crisi vissuta dalla parte, che il comportamento professionale dell’avvocato sia volto, con sensibilità, a smorzare e non amplificare o esasperare i conflitti e i contrasti esistenti, mantenendo un comportamento obiettivo
Non deve identificarsi con la parte assistita, ha il dovere di non fomentare il conflitto, deve evitare di considerare, e far considerare al cliente, l’altro coniuge come un nemico da sconfiggere, umiliare o addirittura annientare.
I sentimenti di rivalsa di un coniuge verso l’altro, pur comprensibili sotto il profilo psicologico, non devono condizionare le iniziative e le strategie professionali, cioè le scelte che competono all’avvocato.
Deve valutare in maniera serena ed equilibrata, scevra da quegli intenti vendicativi che può nutrire la parte assistita, quali siano le decisioni e i procedimenti da istaurare, senza farsi condizionare dai desiderata del cliente, ma facendo prevalere considerazioni ispirate al bene della famiglia complessivamente considerata, avendo anche la forza di dissociarsi, ove necessario, dalla volontà del proprio assistito.
Ciò implica la ridefinizione delle richieste del proprio cliente, con la valutazione della loro congruità e plausibilità, perché il ruolo dell’avvocato non è quello di perseguire l’interesse del cliente a sapito della controparte o peggio ancora dei figli minori, ma è quello di condurre il proprio assistito a soluzioni equilibrate, con l’obiettivo etico e sociale di fare il possibile affinchè i figli non vengano utilizzati come armi improprie per continuare a colpire e ferire l’ex coniuge.
Nel processo di famiglia non esistono né vinti né vincitori e ogni qual volta è necessario ricorrere all’azione giudiziaria è una sconfitta in primo luogo per l’Avvocato.
E’ infatti dovere prioritario dell’Avvocato uscire dalla logica dello scontro e della contrapposizione, tipico della gestione del contenzioso ordinario, dovendo inveceagevolare il superamento del conflitto e della crisi di coppia, evitando l’esasperazione dei rapporti, soprattutto nell’interesse dei figli.
Anche il lessico in questa materia è importante, ancora alcuni si esprimono in termini, di concessione, che normalmente la madre fa al padre, del diritto di visita del figlio in determinati giorni, di facoltà di prelievo del figlio.
Non funziona così, e questa è la dimostrazioe di una mentalità dell’avvocato nociva per la stessa parte assistita, la quale si convince di avere uno strapotere, cioè che l’ordinamento le riconosca il diritto di dettare le regole.
Non è una concessione, non è un diritto di visita, non è il prelievo del figlio, esistono tempi di permanenza del figlio con entrambi i genitori, perchè non c’è un genitore di serie A e uno di serie B, ma due genitori che gli stessi avvocati devono aiutare e spronare a mantenere, anche nella separazione, una cogenitorialità matura e responsabile.
Ecco che anche avvalersi di figure professionali diverse, invitando i clienti a percorsi psicologici, alla mediazione ovvero ad un supporto alla genitorialità, è utile per riattivare quel dialogo che è essenziale nell’interesse dei figli, perché se si diviene ex coniugi non si diviene automaticamente ex genitori.
Ricorrere quindi a figure professionali con cui integrare il proprio ruolo e il proprio operato nella soluzione del caso, significa riconoscere ed essere consapevoli dei propri limiti di competenza con umiltà, che è l’essenza dell’etica.
Una falsa denuncia (quale ad esempio quella di abusi sessuali) o il tentativo di annientare economicamente l’altro coniuge, o il favorire comportamenti di “alienazione parentale”, sono suscettibili di gravi conseguenze sotto il profilo dei legami familiari, dunque controproducenti per il cliente stesso, che magari, accecato dalla rabbia e dal rancore, non riesce a capire quale sia il suo effettivo interesse.
Se l’Avvocato di famiglia si prestasse ad agevolare o favorire, senza severe contrapposizioni, questa strategia, questa sarebbe non solo antigiuridica, ma anche autolesionistica per lo stesso cliente.
Quello che va considerato, anche alla luce di una interpretazione sistematica ed evolutiva dell’ordinamento vigente, che l’Avvocato svolge un servizio di pubblica necessità ed opera nel contesto di un ordinamento (quello forense) la cui primaria funzione – così come precisato dall’art. 1 della legge professionale del 2012 – è quella di garantire la tutela degli interessi individuali e collettivi, assicurando dunque anche la realizzazione di interessi pubblici primari.
L’avvocato, anche in base quindi alla legge professionale, è esso stesso parte del sistema Giustizia, onerato del dovere di protegegre gli interessi pubblici che incontra nel corso del processo di cui è parte e questi interessi, in ambito familiare, sono in primo luogo quelli dei figli minori.
Nella doverosa rappresentazione degli interessi egoistici che difende, l’avvocato di famiglia deve farsi carico quindi di assistere e presidiare gli altri interessi coinvolti.
Lo testimonia espressamente anche l’art. 1 del nuovo codice deontologico, laddove prevede che l’avvocato:
“vigila sulla conformità della legge ai principi della costituzione e dell’ordinamento dell’unione europea, sul rispetto dei medesimi principi nonché di quelli della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”.
In materia di famiglia l’avvocato diviene dunque lo strumento di tutela degli interessi in gioco, senza che ciò comporti una rinuncia al suo ruolo nel processo.
Nel processo in cui è coinvolto un minore, che è parte sostanziale, l’avvocato non assiste un genitore contro gli interessi del minore, ma assumendo la difesa del genitore si impegna ad operare anche nell’interesse dei figli.
Ed ha il dovere di preservarne, con obiettività, gli interessi.
Il Tribunale di Milano con l’interessante ordinanza 23.3.2016 ha precisato che l’avvocato che stipula il contratto di patrocinio con il genitore, per assisterlo in un procedimento dove sono coinvolti figli minori, conclude un contratto ad “effetti protettivi verso il terzi” cioè i figli e dovrà rispondere, precisa il Tribunale, nel caso in cui il suo operato possa creare nocumento al minore stesso.
Perché l’avvocato, pur nella doverosa assistenza del padre o della madre, deve anteporre l’interesse prioritario del minore e in virtù di esso arginare anche tutte quelle forme di micro-conflittualità genitoriale.
Oggi assistiamo a iniziative giudiziarie (nella forma del ricorso d’urgenza o ai sensi dell’art. 709 ter) che non sono dirette a dirimere le controversi su questioni essenziali della vita del minore, ma a delegare al Giudice la risoluzione di piccole questioni, riferite ad esempio all’acquisto di una cosa piuttosto che di un’ altra, alla specificazione nei minimi dettagli dei tempi di permanza stabiliti nei provvedimenti, addirittura diretti alla possibilità di delegare un terzo a prelevare il figlio da scuola.
Al cospetto di una litigiosità di questo tipo, gli avvocati hanno il dovere di svolgere una funzione protettiva del minore, arginando il conflitto invece che alimentandolo, assumendo una posizione comune a difesa del bambino, hanno il dovere di scoraggiare litigi strumentali al mero scontro moglie-marito, di proteggere il bambino, consigliando il proprio cliente e rappresentando le conseguenze dannose della lite.
In questo caso ad esempio, il Tribunale di Milano, ha censurato severamente il ruolo svolto dagli avvocati, teso ad alimentare e non arginare la conflittualità, proponendo ricorsi per ogni minima situazione di conflitto, ed ha assunto provvedimenti limitativi della responsabilità genitoriale ai sensi dell’art. 333 cc affidando i figli al Comune ed delegando gli assistenti sociali a svolgere le funzioni di rappresentanza dei figli.
E’ necessario quindi che da parte degli avvocati che assistono i genitori, vi sia una collaborazione leale, trasparente e non oppositiva, non una aspra contrapposizione, ma un lavorare insieme per individuare soluzioni condivise ed equilibrate nell’interesse dei figli minori.
Anche le soluzioni economiche da adottare nell’interesse dei figli, devono essere improntate dagli avvocati ad uno scambio leale e trasparente.
Oggi sono stati adottati da quasi tutti i Tribunali Protocolli d’intesa sul processo di famiglia che rappresentano linee guida, le cd prassi virtuose, che tra l’altro prevedono una ampia discovery delle risorse reddituali e patrimoniali dei coniugi, che sono obbligati a enunciare le risorse economiche in certificati sostitutivi di atti di notarietà, con tutte le sanzioni legate alla falsa attestazione.
Sono prassi virtuose preordinate ad una svolta culturale, che è un obbligo anche dell’avvocato di famiglia.
Abbandonare cioè l’idea di vivere la separazione come momento di occultamento dei redditi e dei patrimoni ovvero di protezione massima dell’interesse personalistico del cliente, ma indirizzandolo ad una nuova gestione e riorganizzazione del nucleo familiare disgregato, secondo parametri realistici, basati sulle effettive risorse economiche, ponendo al centro l’interesse dei figli.
A questa svolta culturale e di mentalità è chiamato l’avvocato di famiglia che ha l’obbligo di cooperare con lealtà e trasparenza alla risoluzione della crisi, facendo si che l’impatto per i figli sia meno traumatico possibile.
Se il ruolo svolto dall’avvocato di famiglia deve essere improntato a criteri rigorosi, non meno severe sono le norme deontologiche in materia di famiglia e minori.
Il nuovo codice deontologico forense (approvato dal CNF) entrato in vigore il 15 dicembre 2014, colmando le lacune contenute nel precedente codice e recependo i principi affermati dalle Convenzioni Internazionali, tra le quali quella di NewYork sui diritti del fanciullo, ha previsto specifiche norme di comportamento cui è tenuto l’avvocato.
Il nuovo codice quindi contiene alcune disposizioni che riguardano specificatamente il comportamento dell’avvocato in materia familiare e minorile.
In primo luogo l’art. 68 che vieta all’avvocato che ha assistito congiuntamente i coniugi nella fase separativa o divorzile di assumere l’incarico a favore di una di queste in caso di successivo contenzioso.
Se infatti nelle controversie ordinarie decorsi due anni dalla conclusione del mandato l’avvocato, ancorchè con certi limiti, riacquista la libertà di assumere la difesa contro ex clienti, questo non si verifica in ambito familiare, dove le norme sono più severe, ritenendo di prestare massima garanzia di tutela ai coniugi e ai figli.
In realtà la previsione era già contenuta nel precedente codice, ma oggi è stata ampliata riconoscendo il divieto anche nel caso in cui l’avvocato abbia assistito congiuntamente i conviventi, equiparandoli così a tutti gli effetti. Questo sta a significare l’attenzione anche da parte del nostro legislatore, il CNF, verso la famiglia, indipendentemente dal rapporto sottostante sia esso di matrimonio o di mera convivenza.
E’ prevista una sanzione disciplinare molto severa che è quella della sospensione da uno a sei mesi dall’esercizio della professione.
L’art. 68 prevede anche il divieto per l’avvocato che ha assistito il minore in controversie familiari, di assumere la difesa di uno dei genitori in successive controversie.
Non è detto che la successiva difesa del genitore si ponga in conflitto con il precedente incarico, ma questo sta a significare la rigidità dei principi in materia familiare, la massima garanzia ed ampiezza di tutela.
Altro precetto che merita attenzione è quello contenuto nell’art. 56 del CDF, che disciplina l’ascolto del minore.
Dopo la sentenza a sezioni unite della Cassazione che ha disposto la necessità dell’ascolto e la relativa introduzione della norma, si è avvertita la necessità di individuare regole di comportamento da parte dell’avvocato di famiglia, adeguate alla tutela dei diritti dei soggetti minori.
Prima del 2014 la giurisprudenza del CNF era intervenuta a colmare la lucuna del codice deontologico con varie decisioni, legate però al concetto di dignità e decoro e lealtà della professione sanzionando l’avvocato che aveva intrattenuto colloqui coi figli minori della coppia all’insaputa del padre affidatario su questioni attinenti la separazione dei genitori.
Oggi la norma prevede, come regola generale, il divieto per l’avvocato di ascoltare un minore di età senza il consenso dei genitori esercenti la responsabilità genitoriale.
Con la previsione contenuta nell’ultimo capoverso “sempre non sussita conflitto di interessi coi genitori“.
Si pensi all’ipotesi di violenza, di comportamenti pregiudizievoli dei genitori verso il figlio, cioè in tutti quei casi in cui viene nominato un curatore del minore oppure l’avvocato del minore (art. 8 legge 1983).
In questi casi non è necessario il consenso dei genitori, ma l’avvocato può procedere direttamente ad ascoltarlo.
Al secondo comma stabilisce l’assoluto divieto dell’avvocato nelle controversie in materia di famiglia o minorile, di avere colloqui coi minori su questioni relative alla controversia.
Il terzo comma stabilisce il comportamento che deve tenere il legale col minore nel settore penale, prescrivendo che ogni colloquio o informativa debba avvenire col consneso degli esercenti la responsabilità genitoriale e la presenza di un esperto nei casi previsti dalle legge e quando il minore sia parte offesa.
La sanzione è severa, cioè la sospensione da sei mesi ad un anno dall’esercizio della professione.
L’art. 57 disciplina il comportamento dell’avvocato con gli organi di informazione, siano essi la stampa, la televisione o altro mezzo di comunicazione.
Purtroppo questo ambito, ha registrato numerose violazioni deontologiche da parte degli avvocati.
Il secondo comma prevede in particolare:
L’avvocato deve in ogni caso assicurare l’anonimato del minore.
Assicurare l’anonimato del minore è qualcosa di più che non rivelare il suo nome, quanto piuttosto adoperarsi per evitare che questo possa essere individuato, grazie anche all’accostamento di altri particolari.
E’ ovvio infatti che se è fatto notorio che un avvocato assista un adulto in una vicenda che ha coinvolto un minore, il raccontare particolari del caso porta ad individuare il minore, con buona pace del suo anonimato.
Anche qui la sanzione è quella della sospensione dall’esercizio della professione da due a sei mesi.
Vedete dunque quanto siano rigorosi i criteri ai quali l’avvocato di famiglia deve improntare il proprio comportamento e come questo, nel rispetto anche dei canoni deontologici, abbia il ruolo etico e sociale di fare il possibile affinchè i coniugi-genitori, nella fase separativa, non disperdano il patrimonio affettivo che la famiglia ha costruito e che appartiene in primo luogo ai figli.
di Isabella De Bellis Sciarra su Ora legale NEWS
Image credit: Albrecht Fietz da Pixabay
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