Autodissolvenza e mancanza di speranza

Autodissolvenza e mancanza di speranza

di Anna Paola Lacatena (Sociologa e giornalista pubblicista in Taranto)

Secondo l’Unicef, nel mondo un adolescente su sette tra i 10 e i 17 anni convive con un disturbo mentale diagnosticato, qualcosa come 166milioni di giovanissimi.
Nel 2021, l’indice di salute mentale degli italiani, secondo il rapporto Bes dell’Istat, attesta al 10% (circa 220mila) la percentuale di quanti, tra i 14 e i 19 anni, si sono dichiarati insoddisfatti della propria vita- soprattutto ragazze.
Nello stesso anno, Eurostat ha certificato che l’Italia è stata la terza nazione con più abbandoni scolastici (12,7%), dopo Romania (15,3%) e Spagna (13,3%).

Secondo la Società italiana di Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (SINPIA), tra il 2019 e il 2021 i ricoveri in ospedale a causa dei disturbi del comportamento alimentare si sono triplicati, così come è cresciuto il numero degli episodi anticonservativi e di autolesività (vedi self cutting) senza necessariamente contemplare l’intenzione di sopprimere la propria vita.

Non è manipolazione, gesto dimostrativo a cui non prestare attenzione per evitare di offrirsi in scacco agli adolescenti. Ė più spesso un comportamento diretto al proprio corpo, una sorta di attacco, di manifestazione estrema di disagio profondo e radicato.

Non è non voler vivere, più semplicemente è non sapere come farlo.

Sul corpo l’individuo esercita il proprio controllo, anche cercando di non sentire, o al più di contenere il senso di impotenza e passività.

Il soma si fa, dunque, megafono del bisogno di risolvere una dicotomia frustrante: far leva magicamente sull’eliminazione del proprio dolore (impossibile) oppure procurarsene altro su cui credere di avere il controllo per non sentire quello su cui quel controllo non si è riusciti ad esercitarlo, sino alla sua offesa, allo sfregio, alla soppressione (possibile).

L’interlocutore più vicino non è il genitore autoritario con cui non poter parlare, la madre amico/a che considera il/la figlio/a “la vita mia”, salvo non riuscire a vedere chi sta lanciando quel messaggio per quello che è veramente.
All’esterno non c’è una società attenta, adulta, stimabile, normativa in maniera fondata e coerente, ma una realtà edulcorata dove l’autorevolezza e la congruenza si sono fatte oggetti smarriti.

Gli adulti sembrano offrire la propria mano ai più giovani non per accompagnarli nella crescita, rischiando il pur utile e necessario conflitto, ma per garantirsi una condizione da pari, per assicurarsi il viatico alla clausola del forever green.
Entrambi finiscono per imbattersi in un ideale che disconosce la realtà e con essa gli inevitabili limiti e le umane imperfezioni.
Quell’ideale lo accolgono, lo accarezzano, lo interiorizzano con una differenza sostanziale che è nel bagaglio a disposizione per trattarlo, scomporlo, analizzarlo e all’occorrenza ricusarlo.

Sperare non è limitarsi al desiderio che qualcosa accada nel modo in cui vogliamo, ma coscientizzare, crescendo, che altrettanto facilmente potrebbe non accadere o presentarsi in maniera del tutto difforme da come avremmo voluto.
L’ideale narcisista che quotidianamente la società attuale instilla nei più giovani (e non solo) – “come dico io, quando dico io, perché lo voglio io…” – finisce per consegnare la persona (giovane o meno giovane) alla sofferenza dell’inadeguato e dell’insufficienza.

La speranza è per sua stessa natura radicata nell’incerto.

Il dolore è realtà nei giovanissimi; gli strumenti per fronteggiarlo, oggi e per assurdo, sono pochi e mal assortiti.
La mancanza di esperienza, di sperimentazione reale, di contatto con l’Altro, con ciò che è differente dal rassicurante consueto non aiuta a costruire l’auto-determinazione e l’auto-stima.
Fare i conti con la frustrazione è angosciante, ancora di più lo è non riuscire ad esprimere quel dolore che finisce per muoversi non visto, silenzioso, ospite indesiderato ma comunque presente. Anestetizzarlo diventa una soluzione, forse, la peggiore.

Nel 2021, secondo un sondaggio Espad Italia, sono stati in 28mila, nella fascia di età tra i 15 e i 19 anni, che hanno provato a farlo con gli psicofarmaci, utilizzandoli almeno dieci o più volte in un mese.
Tra le più consumate dopo alcol, tabacco e cannabis, queste sostanze per alcuni versi facilmente reperibili già in casa, hanno “aiutato” a dormire, a dimagrire, a migliorare il tono dell’umore, a essere più efficienti a scuola.
In una parola sono stati rinforzo e corroborante chimico – dunque, “pulito”, prescrivibile e socialmente accettato – per sentirsi adeguati e all’altezza.

Fragili, impauriti, in alcuni casi arroganti e aggressivi, stiamo psichiatrizzando una generazione, privandoli di ciò di cui non abbiamo saputo fare loro dono: la speranza.
Per favorire una crescita sana, per prevenire disagi e malesseri bisogna saper educare anche e soprattutto a questa.
Non poi, non domani. Oggi.
… E sembra già tardi.

Credits: ErikaWittlieb da Pixabay

Di Anna Paola Lacatena, su Ora Legale News

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