Diritti in musica
di Aldo Luchi (Avvocato in Cagliari)
La musica è una delle forme d’arte che ha maggiormente condizionato i processi evolutivi sociali e politici dell’ultimo secolo, fin dai primi decenni del ‘900, a partire dal Jazz e dal Blues, per esempio nel faticoso superamento dell’apartheid e delle leggi razziali negli Usa, per proseguire con le molteplici rivoluzioni della cultura giovanile segnate dal Rock ‘n roll, dal Beat, dal Punk, dal Grunge, ma anche da altri movimenti Pop.
Alcuni di questi movimenti culturali hanno avuto, almeno nella loro fase iniziale, una forte matrice identitaria, si pensi all’Hip-hop o al Reggae, fortemente intrisi delle esperienze storiche e culturali delle comunità nelle quali sono nati.
Altri, molto meno vincolati al vissuto del tessuto sociale di provenienza, hanno avuto una maggiore diffusione e hanno subito, anche per questo motivo, maggiori adattamenti al vissuto personale dei musicisti che se ne rendevano interpreti e delle loro comunità.
Un elemento comune a tutte queste forme espressive è quello di aver dato voce, in alcuni casi sporadicamente e in altri più stabilmente, a istanze di natura sociale e politica.
Per citare gli esempi più noti – i classici, appunto -, appartengono a questa categoria:
“Ohio” (Neil Young, 1970 – Album: Crosby, Stills, Nash & Young, “Four Way Street”), scritta a seguito della repressione operata dalla polizia di Kent nei confronti degli studenti che manifestavano davanti alla Kent State University contro la guerra in Vietnam, il 4 maggio 1970, che uccise quattro giovani uccisi con colpi d’arma da fuoco sparando sulla folla;
“Southern Man” (Neil Young, 1970 – Album “After The Gold Rush”), una ferma condanna del razzismo in tutte le sue forme, dalla violenza dello schiavismo degli stati del Sud all’ipocrisia religiosa della quale era permeato, ma contenente anche riferimenti estremamente attuali al Ku Klux Klan ed a quelli che oggi chiamiamo suprematisti;
“Sunday Bloody Sunday” (U2, 1982 – Album “War”), che rievoca il massacro compiuto dall’Esercito Britannico nei confronti dei manifestanti (14 morti e 14 feriti) a Derry il 30 gennaio 1972;
“Stand Up For Your Rights” (Bob Marley, 1973 – Album “Burnin”) e “Know Your Rights” (The Clash, 1982 – Album “Combat Rock”), che sono un inno alla lotta per il riconoscimento dei diritti dei poveri.
In questo panorama esiste poi un pezzo divenuto storico, la cui unicità è rappresentata dal fatto di essere stato scritto dopo l’esame degli atti processuali di un fatto di cronaca e con la finalità, poi raggiunta, di ottenere la revisione di una condanna ritenuta ingiusta.
In “Hurricane” (1975 – Album “Desire”) Bob Dylan mette in evidenza tutte le storture, le contraddizioni e le violazioni che avevano caratterizzato il processo celebrato contro Rubin Carter, un pugile di colore in grandissima ascesa noto con il soprannome di “Hurricane”, accusato di un triplice omicidio volontario (“the crime was murder one”) avvenuto a Paterson (New Jersey) il 17 giugno 1966, che ha scontato 20 anni di carcere prima che ne venisse acclarata l’innocenza.
Il testo della canzone sottolinea, mutuando la tecnica forense, gli elementi critici della ricostruzione che aveva portato alla condanna all’ergastolo di Hurricane dopo un processo superficiale, frettoloso e ingiusto:
il mancato riconoscimento di Carter da parte di una delle vittime moribonda all’ospedale (“wha’d you bring him in here for? He ain’t the guy!”);
la palese falsità delle testimonianze dei due rapinatori (Alfred Bello ed Arthur Dexter Bradley) scoperti a rubare il contenuto della cassa subito dopo l’omicidio;
la prevenzione della polizia, determinata ad incastrare a tutti i costi Carter (“That sonofabitch is brave and gettin’ braver / We want to put his ass in stir / We want to pin this triple murder on him”), perfino inducendo Bradley e Bello a testimoniare il falso in cambio dell’impunità per altri reati da loro compiuti (“The cops said a poor boy like you could use a break / We got you for the motel job and we’re talkin’ to your friend Bello / You don’t wanta have to go back to jail, be a nice fellow”), per motivi razziali (“Think it might-a been that fighter that you saw runnin’ that night / Don’t forget that you are white”);
l’illegittima formazione della giuria composta di soli bianchi ed il pregiudzio del Giudice (“All of Rubin’s cards were marked in advance / the trial was a pig-circus, he never had a chance / The judge made Rubin’s witnesses drunkards from the slums”) in un’America ancora impregnata di razzismo (“In Paterson that’s just the way things go / If you’re black you might as well not show up on the street / ‘Less you want to draw the heat”).
Soltanto nel 1985, grazie alla sensibilizzazione innescata da Dylan e al contributo determinante di un gruppo di studenti universitari canadesi, la Corte Federale annullò la condanna all’ergastolo.
La sentenza fu confermata prima dalla Corte d’Appello e poi dalla Corte Suprema che dichiarò inammissibile il ricorso dell’Ufficio del Procuratore, e Carter fu definitivamente scagionato.
Ciò che rende unico questo brano non è soltanto l’inequivoca affermazione di sdegno da parte del cittadino Dylan nel constatare come la giustizia viene amministrata nel suo Paese (“Couldn’t help but make me feel ashamed to live in a land / Where justice is a game”), ma soprattutto la capacità di Dylan di rendere fruibili a chiunque argomenti tecnici, come sono quelli di carattere processuale, utilizzando un registro fatto di slang e metafore che, paradossalmente, finisce per rendere ancor più netto e chiaro il suo argomentare.
Un’arringa in poesia e in musica.
di Aldo Luchi, su Ora Legale NEWS
Image credit: Melissa Angela Flor da Pixabay
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