Il valore del lavoro femminile

Il valore del lavoro femminile

di Valeria Maione (Professoressa di Statistica ed Economia del lavoro alla facoltà di Scienze politiche dell’Università di Genova)

È stata la mia condanna: arrivare presto, prima, in anticipo.
Ricordo bene quando annunciai al mio Maestro che intendevo dedicarmi allo studio delle donne con particolare riferimento al loro apporto nel mercato del lavoro.
Non farai più carriera” fu la sentenza, con una certa amarezza nel cuore visto che era consapevole che presto ci avrebbe lasciato.
Poi l’argomento diventò di attualità, qualcuno disse di moda, e le soddisfazioni per il percorso intrapreso non sono mancate.

Non si può dire che la ricerca fosse libera quando ho cominciato.
Il primo consiglio, che costituiva una sorta di obbligo, fu di non esprimere mai idee personali, al più si poteva citare qualche autorevole studioso aderendo alle sue argomentazioni e riportandone altre.
Se a ciò si aggiunge la difficoltà di consultare fonti, non sempre reperibili in loco, si comprende perché la produzione fosse contenuta. A meno che non si avesse a che fare con quei bibliotecari impagabili in grado di darti in poco tempo tutto quello che poteva servire, comprese le indicazioni su dove fosse allocato. Spesso occorreva recarsi presso altre biblioteche, di altre università, in altre città attrezzate per soddisfare le singole esigenze.
Chi oggi accede alle fonti con un click non può capire la fatica che tutto ciò comportava.

Ripensandoci a posteriori fu probabilmente questa circostanza, una volta assunta all’ufficio regionale dell’ISTAT e constatati i tempi morti che quel lavoro comportava, a suggerirmi di organizzare e rendere fruibili i numerosi dati di cui disponevamo attraverso le pubblicazioni dello stesso e di altre istituzioni.
Indagine Forze lavoro, Bilanci di famiglia, Censimenti divennero il mio pane quotidiano.
Ebbi modo di conoscere a fondo il territorio della mia regione non perdendo di vista la realtà nazionale con un confronto continuo.

Quella biblioteca mantenne vivo il mio interesse per la ricerca e diretto il contatto con l’università nella quale entrai per concorso, grazie anche ad alcune ricerche alle quali avevo dato il mio contributo, una per tutte quella sugli indicatori alternativi al PIL che alla fine degli anni ‘70, tra gli economisti, erano talmente innovativi da esser considerati un’eresia.
Oggi sorrido a pensare la fatica che comportò scegliere e poi quantificare i 30 indicatori del livello di vita che utilizzammo, un niente se confrontati con i 130 dell’attuale BES o con altre metodiche ancor più elaborate e complesse.

Anche quando ho cominciato a parlare di differenziali salariali e retributivi di genere mi guardavano come una marziana, i miei colleghi spesso se ne uscivano con frasi del tipo “la Maione si preoccupa e parla solo di donne” dimenticando che nel mio lavoro istituzionale ho risolto brillantemente anche discriminazioni perpetrate nei confronti di maschi.

A proposito di questo mio impegno, maturato nella consapevolezza di essere stata una privilegiata perché ho sempre svolto lavori piacevoli e soddisfacenti, che mi hanno fatta star bene, è stato a sua volta fonte di grandi soddisfazioni e ne ho derivato la convinzione che tutta la mia vita sia dimostrazione tangibile che lo star bene ci rende più produttivi, così come sostenevo nello studio Lavoro DOC, qualità del lavoro, qualità della vita (FrancoAngeli, 2004).

Debbo riconoscere che dall’insegnamento, al quale mi sono dedicata con passione e un indubbio coinvolgimento, anche emotivo, ho tratto una sorta di appagamento complessivo, vitale.
Per una che non ha generato materialmente, nel fisico, contribuire a far crescere in scienza e conoscenza i e le giovani ha comportato una condivisione che molto assomiglia alla maternità.
I successi dei miei allievi li vivo come parzialmente anche miei, per quel che sono riuscita a trasmettere.

Peraltro sono anch’io stata soggetta agli stereotipi, ad esempio ho avuto un cauto rifiuto del denaro, nella presunzione che una donna non debba cercarlo e riceverne pena la contaminazione della sua signorilità.
Il mio Maestro mi richiamava spesso nel merito rammentando che nella società moderna “se non costi non vali”, ma in questa prospettiva sono stata poco ricettiva.

Di recente ho ripreso il tema della detassazione del lavoro femminile, proposto più di dieci anni fa da Alesina e Ichino.
Probabilmente i tempi sono maturi rispetto alla necessità di riconoscere il valore del lavoro femminile per il mercato insieme a quello della cura che le donne svolgono per tradizione, circostanza dalla quale derivano indubbi risparmi per un sistema che altrimenti dovrebbe provvedere in proprio all’accudimento di bambini e anziani.
Detassare completamente o anche parzialmente il lavoro delle donne favorirebbe sia la componente dipendente sia quella autonoma, sovente soggetta a discriminazioni retributive ingiustificate.

Credits: Rudy and Peter Skitterians da Pixabay

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