
Suicidio annunciato
di Antonella Calcaterra (Avvocata in Milano)
La parola alla difesa. Ancora troppo spesso inutile.
Da anni seguivo il percorso giudiziario di Giovanni. Nome volutamente di fantasia.
Un complicato districarsi tra processi nuovi e vecchi.
Una via crucis tra un’aula e l’altra, un tribunale e altro, tra un carcere e una comunità.
Spesso, anzi quasi sempre, senza che vi fosse una comunicazione tra Servizi, Giudici e gli operatori del carcere.
Ho provato a far dialogare tutti. Passando carte, comunicazioni, relazione mediche e bisogni del ragazzo.
Perché un percorso seriamente si costruisce cosi. Sennò i rischi di fallimento sono tantissimi.
Giovanni è mancato qualche settimana fa dentro il carcere.
Si è messo la testa dentro un sacchetto con il gas butano, quello che fuoriesce dal fornelletto da campeggio che i detenuti usano per cucinare.
Uno dei 44 suicidi di quest’anno.
Una lotta contro il tempo messa in atto da mesi.
Avevo cercato il supporto della Giustizia, chiedendo una perizia, perché era importante capire i disturbi di Giovanni e le indicazioni di cura utili.
I tentativi di aiutarlo erano iniziati qualche tempo prima ma con esiti non buoni.
Un Giudice aveva alzato gli occhi e aveva ascoltato.
Però quello del processo accanto e del processo procedente non si erano accorti che Giovanni aveva disturbi che lo rendevano incompatibile con il carcere, come aveva scritto a chiare lettere lo psichiatra nominato dal “Giudice attento”.
Ma altri non avevano letto i contenuti di quello scritto.
E il Pubblico Ministero di una udienza concomitante aveva ritenuto superflui i contenuti della perizia e la misura cautelare non si era trasformata in misura di sicurezza, perché era mancata la domanda.
E intanto passavano i mesi
I servizi psichiatrici di Giovanni si sono trovati in difficoltà di fronte alle richieste del carcere che si dichiarava inidoneo a tenere tra le proprie mura un ragazzino così complesso e fragile.
E sono rimasti a lungo silenti a fronte delle reiterate richieste in nome e per conto di Giovanni.
Avevo di fronte una equipe forense; una novità prevista appositamente per la gestione dei percorsi di cura di autori di reato.
Giovanni ha continuato a stare peggio.
Poche settimane prima della morte, aveva tentato un suicidio ferendosi gravemente ed era stato ricoverato nel reparto psichiatrico di un ospedale esterno.
Rientrato in carcere il problema si è riproposto nella sua prepotenza.
Ognuno dava indicazioni differenti, altri manco si accorgevano di quello che stava accadendo, evitando proprio di rispondere.
Ho chiesto spesso aiuto per lui.
Alla fine, ho implorato una misura di sicurezza detentiva che, sempre il medesimo, e solo, Giudice che ha alzato la testa ha applicato grazie ad una tempestiva richiesta.
Giovanni però è rimasto in lista di attesa per un posto in Rems e frattanto si è tolto la vita.
O forse voleva solo alleviare la sua sofferenza esistenziale. Non lo sapremo mai.
Mi restano addosso le sue telefonate nel pianto dal carcere, durante le quali ci impegnavamo a farlo sorridere e la frustrazione di un sistema che non dialoga neppure quando c’è in gioco tanta sofferenza.
A lato, e a margine, le poche persone che hanno prestato ascolto.
Ma il tempo non ci ha aiutato.
I tempi della giustizia e della sanità non coincidono quasi mai con i bisogni di cura delle persone.
Noi possiamo fare molto.
Ma questa storia insegna che a volte non basta.
Occorrerebbero un sistema sanitario, un welfare differente e diversamente efficace.
Ma soprattutto una maggiore sensibilità. Da parte di tutti.
Credits: www.collater.al/jr-finding-hope-time-100-coronavirus/
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