Vergogna
di Aldo Luchi (Avvocato in Cagliari)
Stiamo stravolgendo il senso delle parole. Non soltanto cambiamo i fonemi, li stravolgiamo, un po’ a causa della contaminazione con altre lingue e un po’ in ragione del persistente e logorante cattivo uso degli stessi, ma stiamo progressivamente modificando proprio l’identificazione di alcune parole con l’oggetto o il concetto che identificano.
Le sradichiamo dal contesto che è loro proprio, le utilizziamo al di fuori delle regole grammaticali che ne caratterizzano l’uso corretto.
Vezzi verbali introdotti da comunicatori improvvisati che assurgono a veri e propri tic lessicali: espressioni come “senza se e senza ma” per esprimere la risolutezza o “piuttosto che” usato in senso disgiuntivo. Abomini semantici.
Già diversi anni fa, Gianrico Carofiglio ci aveva messi in guardia circa la manomissione delle parole (Rizzoli, 2010):
“Tutti possiamo verificare, ogni giorno, che lo stato di salute delle parole e quanto meno preoccupante, la loro capacità di indicare con precisione cose e idee gravemente menomata”
e riprendeva le parole di George Orwell (La politica e la lingua inglese, 1946) che osservava che le
“cattive abitudini si diffondono per imitazione e possono essere evitate se ci si prende il disturbo di farlo. Se ci si libera di queste abitudini si può pensare con più chiarezza e pensare con più chiarezza è un primo passo necessario verso il rinnovamento della politica“.
In breve, il legame tra le parole e la cosa o l’idea che esse identificano, e quindi la ricchezza delle parole da usare nella comunicazione, favoriscono la chiarezza del pensiero di chi pronuncia quelle parole, le sceglie, le adopera in concatenazione tra loro e la chiarezza della comprensione di chi ascolta.
Ed è forse proprio questo il punto nodale:
la finalità che ci si prefigge con l’uso delle parole, se l’affermazione delle proprie o l’ascolto, il dialogo, il convincimento.
Tra le molte parole che vengono quotidianamente sottoposte alla violenza appena descritta, credo che la parola vergogna sia una quella che, più di ogni altra, ha perso la capacità di indicare con precisione cose e idee, versando in uno stato di salute davvero preoccupante.
Dal definire il “Sentimento più o meno profondo di turbamento e di disagio suscitato dalla coscienza o dal timore della riprovazione e della condanna” (Dizionario della Lingua italiana, Treccani), il termine è passato gradualmente ad indicare l’esposizione al pubblico ludibrio, qualcosa che espone il malcapitato alla riprovazione generale anche laddove la condotta da lui tenuta non sia contraria alla morale o all’etica.
Si è giunti a convertire, soggettivizzandolo, il termine in questione fino a fargli definire l’effetto di qualsiasi critica “anche nei casi in cui questa vergogna non sia giustificata, e la persona che si vergogna finisca per sentirsi così non tanto perché ci sia in lei qualcosa di sbagliato, ma semplicemente perché è stata esposta a una critica in pubblico”, come osserva acutamente Edoardo Lombardi Vallauri nell’ambito di una consulenza linguistica pubblicata dall’Accademia della Crusca sul termine “body shaming” (https://accademiadellacrusca.it/it/consulenza/luso-di-body-shaming-%C3%A8-una-vergogna/1652).
Questa distorsione è tanto dilagante che quotidianamente utilizziamo l’uso della parola vergogna per esprimere la contrarietà a un’opinione espressa da altri, per contestare un’iniziativa con la quale non concordiamo o per definirne l’esito.
Si tratta di un habitus espressivo sempre più diffuso, specie nella comunicazione forzatamente sincopata dei social media, largamente utilizzato anche nella comunicazione politica, in particolare da parte di quei movimenti inclini al populismo che mirano a suscitare l’indignazione popolare (spesso attraverso una rete di finti account collegati tra loro che in automatico) nel tentativo di acquisire consensi.
La distorsione del termine vergogna, però, assume una portata particolarmente significativa nel suo frequentissimo uso per commentare le vicende giudiziarie.
Anche in questo caso dietro impulso di abili e scaltri manipolatori dei fatti che lo utilizzano per suscitare l’indignazione popolare, il fonema in questione viene indifferentemente adoperato per stigmatizzare sia la condotta addebitata all’indagato (manco a dirlo, dichiarato colpevole o innocente su due piedi e irrevocabilmente), sia l’eventuale provvedimento di archiviazione o sentenza di assoluzione.
In effetti, è complicato spiegare la funzione del processo a quanti sono stati convinti della colpevolezza dell’accusato di turno dall’attribuzione del marchio della vergogna fin dalle prime fasi o dalla conferenza stampa organizzata ad hoc dalla polizia giudiziaria o dalla Procura o, ancora, dai talk show popolati da pseudo esperti mirabilmente schierati a favore ma molto più spesso contro il colpevole eletto.
È complicato spiegare a chi è quotidianamente bersagliato di colpevoli, mostri, ladri, preconfezionati dagli accusatori che il processo che assolve un imputato quando la sua colpevolezza non è provata al di là di ogni ragionevole dubbio costituisce un orgoglio e una vittoria dello Stato di diritto.
E che si dovrebbe provare vergogna per l’esatto contrario.
Credits: BTS 2022, Yet To Come – frame da video ufficiale su YouTube
Di Aldo Luchi, su Ora Legale News
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