Utopie

Utopie

di Massimo Corrado Di Florio

I non luoghi, in quanto “posti” irreali, affascinano e possono perfino spingerci verso un nulla. Per lo più rappresentano una propensione verso irrealizzabili idee. Tuttavia, son proprio le idee irrealizzabili che dànno infine corpo a una visione. È il motore immobile della vita, bellezza.

Un non luogo, un vuoto, un’utopia. Nel più perfetto dei mondi irrealizzabili possibili potrebbe addirittura ipotizzarsi una dualità, meglio, una antinomia, una geometrica contrapposizione pura e semplice che non tollera alcun genere di (falso) moralismo – che utopia sarebbe? -: un’utopia del bello e un’utopia del brutto, un’utopia del buono e un’utopia del cattivo, un’utopia del bianco e un’utopia del nero, ma anche un’utopia grigia (perché no?) con tutte le sue possibili sfumature ( e geometriche) contrapposizioni.
In questo contesto, perciò, perché limitarsi ad ipotizzare solo una irrealizzabile idea del meraviglioso? In fin dei conti siamo immersi in una costante polarizzazione del tutto e, dunque, perché sottrarre proprio alle utopie questa polarizzazione?

Si pensi per un solo attimo a come, in una storia assai recente, abbiamo attraversato il pauroso abisso del crollo dei mercati a livello internazionale. In una sola possibile utopia del bello, del bene, del luminoso mondo perfetto potremmo essere tutti d’accordo su un precisissimo punto: la finanza è cattiva, i gestori dei fondi sono stati super pagati e, in breve, sono stati la feccia dei mercati. Per contrapposizione a questo pessimo andamento del mondo del 2008 (o giù di lì) l’avidità è da condannare. L’idea utopistica che ha ispirato il buonismo italico è stata (ed è ancora) quella di condannare senza un se e senza un ma il troppo facile guadagno.
Possiamo anche concordare sul punto.

Tuttavia, per una mera faccenda di onestà intellettuale, dovremmo porci una seria domanda: siamo veramente convinti che questo severo giudizio sia estensibile proprio a tutti?
Qualcuno ha scritto che gli operatori di Wall Street, i professionisti dei fondi speculativi non hanno fatto altro che perseguire pervicacemente -senza cedimenti, viene detto- il profitto poiché è così che si guadagnano da vivere. Però, premiare l’ingordigia è un male.

Però, “…quando nel 2008 le società ….hanno distribuito gratifiche per 16 miliardi di dollari…” e “…se l’avidità è il motivo per cui non meritano quei soldi oggi, su cosa ci fondiamo per dire che allora li avevano meritati?…”. Michael Sandel (Giustizia, il nostro bene comune, ed. Feltrinelli), ad esempio, sostiene che se le super elargizioni fossero derivate dai guadagni delle società nessuno avrebbe protestato ma se i premi fossero derivati dai contribuenti le cose sarebbero cambiate.

In una utopia afflitta da moralismi l’idea che i contribuenti americani possano finanziare le elargizioni finisce sempre con una condanna: l’avidità non è mai tollerabile.
L’utopia insofferente ad una riflessione moralmente rilevante invece penetra nel cuore del problema: l’opinione pubblica americana (non italiana e nemmeno europea -forse-) non disprezza l’ingordigia. Ciò che proprio non riesce a tollerare è il fallimento.

Un mondo rovesciato, potremmo dire. Un’utopia possibile, direi. È il motore immobile della vita. C’è da avere paura.

In ogni possibile non-luogo c’è veramente di tutto. E ci siamo anche noi che, magari, aspiriamo a diventare monadi imperfette (un ossimoro?).

Un’utopia senza paura è una possibile gradevole utopia.

In realtà, l’unico modo per non avere paura è sapere intimamente chi sei senza avere (più) la necessità di farlo sapere, di dichiararlo quasi. Una solida consapevolezza del sé non urlata. Un’utopia.

Credits: David Bruyland da Pixabay

Di Massimo Corrado Di Florio, su Ora Legale News

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