
11 novembre 2013
di Daniela De Sario
Sono passati sette anni da quella data scolpita nella memoria di tutti i miei familiari: 11 novembre 2013.
La data di un giorno che era cominciato come il più comune e che ha finito per entrare nella nostra personale storia come la pagina più nera. Mia madre, una donna in pensione di 60 anni, esce di casa, mi accompagna in università, fa delle normali commissioni, torna a casa in un tranquillo quartiere residenziale in pieno giorno e nell’atto di varcare la soglia di casa viene aggredita da un perfetto sconosciuto. Dì lì a poco lui, un ragazzo nigeriano di poco più di vent’anni, la violenterà e la ucciderà, nella nostra casa che, senza motivo né ragione, è diventato il teatro di un orrore senza fine.
Avevo 24 anni all’epoca, ero in procinto di laurearmi in giurisprudenza con una tesi in diritto penale. Tutti i miei studi e tutti i miei sogni avevano perciò avuto ad oggetto il mondo della legge. E all’improvviso, io e la mia famiglia ci siamo finiti dentro, protagonisti involontari delle pagine dei miei manuali.
La giustizia, quella in cui ho sempre creduto, è stata rapida ed efficiente. Il lavoro della forze di polizia è stato esemplare, dimostrando che il calore umano è un valore aggiunto che può fare la differenza anche nella più fosca delle realtà. Il processo si è concluso comminando al reo la pena più alta e rendendo un servigio alla comunità prima ancora che a noi familiari coinvolti.
Noi abbiamo già subito la perdita più grande e nella maniera più dolorosa possibile, ma almeno in un’aula di giustizia ci è stato assicurato che l’autore di gesti così aberranti e immotivati non circolerà per le strade, pronto a distruggere altre vite.
Che questo non ci restituisca mia madre è fuor di dubbio. E non c’è Tribunale che possa ristorare davvero le ferite subite quando una violenza simile impatta improvvisamente contro la tua esistenza.
Perché ogni atto di violenza ne genera altri, porta dietro di sé corollari inaspettati, ferisce ogni giorno in un modo diverso.
Chi si ritrova coinvolto in queste tristi storie sarà violato in tutto. Negli affetti, nella libertà, nel patrimonio, nella reputazione, nel ricordo. Resistere diventa un imperativo, cercare di mantenere lucidità e forza in un momento in cui tutto ti sta cascando addosso richiede sforzi che costano a caro prezzo. Eppure ci provi, ce la metti tutta per provare a salvare il salvabile. Nessuno ti insegna come dovrai comportarti, non c’è il libretto di istruzione della perfetta “persona offesa”.
Nessuno, fin quando non lo fa, può immaginare quanto faccia male il riconoscimento di una persona amata in un obitorio di medicina legale.
Nessuno può immaginare quanto sia disturbante dover associare la propria madre adorata a certe immagini cruente. C’è un lungo lavoro psicologico da affrontare per riuscire ad attingere ai ricordi positivi, per impedire al dolore di colorare tutto di nero e provare ancora a ricordarla con un sorriso, invece che con l’amaro in bocca.
Nessuno può immaginare di essere privato della libertà di cremare il corpo secondo le volontà del de cuius, perché quello stesso corpo resterà per sempre corpo del reato a disposizione dell’Autorità Giudiziaria, e tu non puoi “distruggerlo”. Proprio tu, che invece quel corpo volevi solo amarlo e difenderlo da tutto il male che ha ingiustamente patito.
Nessuno può pensare che, fino a quando la situazione non sarà chiara agli inquirenti, tu sarai interrogato, i tuoi telefoni intercettati, la tua onestà messa in dubbio, i tuoi conti bancari bloccati, la tua vita messa al setaccio alla ricerca del marciume. Ma li comprendo. Cosa potevano loro sapere di noi, una famiglia normale e per bene, stupendamente ordinaria fino a quando una straordinaria crudeltà ha varcato la soglia della nostra villetta?
Nessuno può immaginare che dovrà di punto in bianco abbandonare la propria casa perché è una scena del crimine da non contaminare. Ho dovuto rientrarci, per prendere gli abiti per i funerali di mia mamma, con un tuta di quelle che avevo visto solo in CSI e seguita da un agente che riprendeva con una telecamera ogni mia azione, per verificare che non alterassi lo stato delle cose.
Adesso, ovviamente, viviamo altrove.
Nessuno può avere idea del senso di ribollente ingiustizia e rabbia che si prova quando la targa commemorativa posta dal Comune per tua mamma viene deturpata, vandalizzata e distrutta più e più volte solo perché quel nome, per tanti, non vuol dire niente. Ma cosa ci può essere di più incivile di infliggere violenza ad una targa che vuol inneggiare alla non violenza?
Come fare a spiegare quanto le sensazionali sciocchezze raccontate dai giornali nei primi giorni abbiano ferito una donna e una famiglia già al limite della sopportazione? Purtroppo, l’omicida, al fine di discolparsi per le sue condotte, aveva inventato di essere stato sedotto ed invitato da mia madre ad avere un rapporto sessuale.
Le prove hanno poi ampiamente sconfessato questa folle versione, non vi è stato alcun dubbio sul fatto che le sue fossero pure calunnie, bugie per salvare se stesso da una dura condanna e al contempo continuare ad infliggere colpi su colpi a chi, ancora una volta, non poteva difendersi. Ma intanto, con i giornali che in prima battuta avevano riportato queste dichiarazioni come fossero una verità e che dopo si sono ben guardati dallo smentire con la stessa enfasi, questa è la versione che per lungo tempo la gente ha ricordato. Questa l’ulteriore violenza subita da lei e da noi. Lei, etichettata come una adescatrice. A riprova di quanto possa danneggiare una storia raccontata male, con i ruoli invertiti e con la vittima che si trasforma in carnefice.
Inimmaginabile è anche il cosiddetto circo mediatico che si crea intorno a questi episodi pruriginosi e torbidi. Il gusto del macabro è la ragione per cui molti programmi televisivi fanno audience. E infatti quegli stessi programmi hanno contattato la mia famiglia per averci “ospiti”. Degli amici mi riferirono anche che avessero dedicato una parte di episodio alla nostra vicenda. Abbiamo scelto un basso profilo e rifiutato categoricamente. Siamo sempre stati granitici nella nostra volontà di riserbo e discrezione. Certi dolori è bene che restino privati, avevamo solo bisogno di stringerci fra noi. Spettacolarizzare una sventura, diventare fenomeni da baraccone e ritrovarsi star della cronaca nera erano le ultime cose di cui avevamo bisogno.
Sono passati sette anni. E io mi chiedo quanto sia stato, sia e sarà difficile per me essere una giovane donna che vuole vivere nel mondo libera e serena quando a mia madre il destino ha giocato un simile tiro mancino.
Quello che è capitato a lei poteva succedere a chiunque, perciò nessuna è al sicuro. Fino a quando nel mondo ci saranno uomini che pensano di poter disporre del corpo femminile come di un oggetto destinato al loro divertimento da gettar via dopo l’uso, questo potrà accadere. Fino a quando non potremo rifiutare delle attenzioni sgradite senza temere atroci conseguenze, non saremo davvero libere.
È una sfida quotidiana quella di non lasciarsi condizionare dalla rabbia e dalla paura.
Articolo scritto per giraffaonlus
Image credit: Olga Diasparro, Crepe nell’anima, Bari, 2018
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