
Difendere in famiglia
di Alessandra Capuano Branca (Avvocata in Vicenza)
Ogni Avvocato che assume l’incarico di difendere un coniuge, un convivente, un genitore, contro l’altro sa che le sue iniziative incideranno anche sulle relazioni familiari che, per loro natura, sopravvivono al processo.
Una condizione analoga è difficilmente presente negli altri ambiti del Diritto Civile, sicchè l’esercizio del mandato professionale nei conflitti familiari, particolarmente in presenza di figli, deve tenere conto di questa peculiarità.
In caso contrario, infatti, può verificarsi una pericolosa divaricazione tra il riconoscimento del diritto invocato e la tutela del concreto interesse perseguito; e ciò anche quando, o particolarmente quando, al cliente sfugga la distinzione.
Tutti gli Avvocati sanno di essere oggetto di aspre critiche, il più delle volte frutto di ignoranza, vieto moralismo e disinformazione, per il modo in cui gestiscono l’aspetto giudiziale dei conflitti familiari, per tacere degli apprezzamenti espressi attraverso metafore zoologiche.
Pur rimanendo convinti che degli Avvocati è più facile parlare male che fare a meno, ci siamo di fatto abituati ad essere il bersaglio di una certa insoddisfazione sociale che il più delle volte andrebbe invece meglio indirizzata.
Tuttavia, lo scenario negli ultimi anni è cambiato, vi si sono aggiunti nuovi attori e, sempre più spesso, si fa strada l’idea che l’ostacolo alla soluzione dei conflitti familiari sia l’Avvocato.
Si sta perciò passando dalle parole ai fatti con progetti che prevedono, ad esempio, la mediazione obbligatoria con gli avvocati seduti in sala d’aspetto, in perfetta continuità con la prassi contra legem, ma tuttora diffusissima, dell’audizione delle parti in assenza dei difensori durante le udienze presidenziali.
Perciò mi pare urgente e necessario che l’Avvocatura tutta si interroghi al proprio interno, anche in termini autocritici, sul ruolo e la funzione del difensore in questa materia.
E’ certamente un tema complesso e di vasta portata, che non si può esaurire nello spazio di un breve intervento.
Tuttavia, credo che si possa cominciare da una riflessione sul contratto di mandato professionale che l’Avvocato familiarista riceve dal Cliente.
Tanto più in quanto questa tematica risulta fortemente innovata, sia in forza della nuova Legge Professionale (art.3 L.247/2012), che riconosce il “rilievo sociale” della professione forense, sia in forza dei poteri e correlativi doveri di attestazione e certificazione che l’Avvocato ha acquisito nell’ambito della cosiddetta “giurisdizione forense” (DL 12/09/2014, n. 132 convertito con la legge 10 novembre 2014, n. 162 – cfr. tra gli altri l’art.5), cui si aggiungono gli obblighi deontologici di verità e lealtà, che sempre più frequentemente sono ritenuti asse portante dell’azione dell’Avvocato.
Nel diritto di famiglia tutto ciò assume un carattere particolarmente pregnante, in rapporto all’interesse del minore che, per definizione, va perseguito prioritariamente.
Muovendo da tali presupposti è in via di elaborazione una giurisprudenza, attualmente minoritaria – per non dire provocatoria –, che in presenza di minori coinvolti qualifica il mandato professionale dell’avvocato familiarista come contratto ad effetti protettivi verso terzi, mutuandone la nozione dal modello ormai invalso in ambito sanitario (cfr. ordinanza Tribunale di Milano, IX, 23.3.2016).
L’effetto di questo cambio di prospettiva è di introdurre anche in ambito forense una ipotesi di colpa cosiddetta da “status”, addebitando all’Avvocato la responsabilità delle azioni o omissioni compiute in esecuzione del mandato, che provochino pregiudizio a terzi qualificati, qual è il minore coinvolto nel conflitto.
L’aspetto interessante di questa prospettiva, per molti versi inquietante e tutt’altro che scontata, sta tuttavia nel mettere la figura dell’Avvocato familiarista al centro della discussione, riconoscendogli un ruolo da protagonista suscettibile di oscurare le scelte e le aspettative del cliente, in ossequio alla previsione di cui al primo comma dell’art.3 della L. Professionale vigente (“L’esercizio dell’attività di avvocato deve essere fondato sull’autonomia e sulla indipendenza dell’azione professionale e del giudizio intellettuale”).
Si potrebbe quindi affermare che ogni scelta processuale e non (cosa fare, come farlo, quando farlo) sia riferibile all’Avvocato, non più soltanto sul piano tecnico, ma altresì sul piano degli effetti che avrà sui minori coinvolti. Qualcuno potrebbe osservare di avere sempre operato in tale prospettiva, non dimenticandosi mai di quei “terzi” che restano fuori dal giudizio ma scontano gli altrui peccati e con i quali l’Avvocato difensore del genitore non può e non deve avere contatti.
Sennonchè, a giudicare dal numero di Consulenze tecniche d’Ufficio e dall’esito di certi giudizi, c’è da dubitare molto che tale impostazione sia realmente diffusa.
Sembra emblematica a questo proposito una sentenza del Tribunale di Brescia (n.815 del 22.3.2019) che, in sintesi, rappresenta una battaglia giudiziaria per l’affidamento esclusivo alla madre, iniziata nel 2012 e terminata con l’affidamento esclusivo al padre che la minore aveva rifiutato per tutto il corso del giudizio, dopo sette anni di processo senza esclusione di colpi, CTU e intervento dei Servizi Sociali.
Molto resta da dire, ed ancor più da fare, ma un cambio di atteggiamento al quale tutti gli Avvocati possono concorrere potrebbe cominciare con il sentirci tutti responsabili per quanto accaduto alla bambina di Brescia, perché di sicuro, in assenza di iniziative di parte, non sarebbe potuto accadere.
Photo credit: www.focus.it
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