Audizione dell’Istat

Audizione dell’Istat

di Linda Laura Sabbadini (Direttrice della Direzione centrale per gli studi e la valorizzazione tematica nell’area delle statistiche sociali e demografiche)

Pubblichiamo il testo integrale della audizione del 26 febbraio 2020 della Direttrice in XI Commissione Lavoro pubblico e privato della Camera dei deputati.

  • Indice
  • 1 Introduzione
  • 2 Le differenze di genere nella partecipazione al lavoro
  • 2.1 Le tendenze di lungo periodo: si riduce il gap di genere ma l’occupazione femminile rimane bassa
  • 2.2 Le tendenze più recenti: le donne hanno recuperato i livelli di occupazione precedenti la crisi
  • 2.3 Differenze di genere nella transizione al lavoro di laureati e dottorati 8
  • 2.4 Le donne nelle posizioni apicali, le imprenditrici e le libere professioniste
  • 2.5 La qualità del lavoro delle donne in peggioramento
  • 3 I divari retributivi e di reddito
  • 4 La conciliazione dei tempi di vita è ancora una forte criticità
  • 5 L’offerta di servizi socio educativi per la prima infanzia scarsa e mal distribuita sul territorio
  • Allegati: Tavole statistiche

1 Introduzione

Con questa audizione l’Istat intende offrire alla XI Commissione della Camera dei deputati materiali utili nella discussione delle proposte di legge AA.C. 522, 615, 1320, 1345, 1675, 1732, 1925 in materia di partecipazione femminile al mercato del lavoro e conciliazione dei tempi di vita.
L’Istat è costantemente impegnato sul fronte dello sviluppo delle statistiche di genere, sia sul piano nazionale che internazionale, e si dichiara disponibile ad eventuali ulteriori approfondimenti richiesti dalla Commissione.

2 Le differenze di genere nella partecipazione al lavoro

2.1 Le tendenze di lungo periodo: si riduce il gap di genere ma l’occupazione femminile rimane bassa

Dal 1977 al 2018 il tasso di occupazione è cresciuto di solo 4,8 punti percentuali nel complesso, ma analizzato per genere evidenzia dinamiche contrapposte dei due sessi: per gli uomini il tasso di occupazione è sceso di 7 punti (dal 74,6 al 67,6%), mentre per le donne è aumentato di 16 punti (dal 33,5 del 1977 al 49,5%). Conseguentemente nell’arco di 40 anni il divario di genere e diminuito da 41 punti a 18.
La diminuzione del divario di genere è dovuta sia al calo dell’occupazione maschile, che all’ aumento di quella femminile.

Il saldo nei tassi di occupazione è il risultato dell’avvicendarsi di diverse fasi del ciclo economico: la coda della fase di espansione di fine anni ’70 che ha portato il tasso di occupazione a 54,6%, la crisi dei primi anni ’80 (con un calo del tasso di 1,3 pp tra il 1980 e il 1985), seguita da una crescita di 1,5 punti percentuali fino al 1991 e dalla nuova e più forte fase recessiva dei primi anni ’90 (-2,3pp tra il 1991 e il 1995).

Ha inizio, dunque il lungo periodo di crescita protrattosi fino al 2008, anno in cui il tasso di occupazione raggiunge il massimo storico di 58,6% (+6,1 pp rispetto al 1995) e la successiva crisi che ha portato un calo di -3,1 punti percentuali tra il 2008 e il 2013. Dal 2014 il tasso di occupazione è tornato a salire fino a quasi recuperare i livelli pre-crisi (+3 pp tra il 2013 e il 2018 anno per il quasi si è registrata una media del 58,5%).

La dinamica è molto diversa se esaminata per genere: per i maschi, negli ultimi 40 anni, il tasso di occupazione è sceso di 7 punti percentuali, passando da 74,6% a 67,6% (con un minimo di 64,7% negli anni 2013 e 2014), mentre quello femminile, che partiva da livelli bassissimi (nel 1977 appena un terzo delle donne era occupato) è aumentato di 16 punti, attestandosi al 49,5% nel 2018. Di conseguenza il divario di genere si è più che dimezzato: da 41,1punti percentuali del ’77 a 18,1 del 2018.

Per l’intero periodo l’andamento delle donne è stato migliore, con cali meno forti (o nulli) nelle fasi di recessione e aumenti più elevati in quelle di espansione. Il 2015 è l’unico anno, in tutta la serie storica, in cui il tasso di occupazione degli uomini cresce di più di quello delle donne.
Tuttavia il divario di genere nei tassi di occupazione in Italia rimane tra i più alti di Europa (circa 18 punti su una media europea di 10).

Per la componente femminile si osserva una maggiore resilienza alle crisi, dalle quali è sempre uscita prima, e meno colpita, rispetto a quella maschile.
Ciò sia per la diversa struttura occupazionale per settore (le donne sono più presenti nei servizi, meno colpiti dalla crisi), sia per le trasformazioni della componente femminile dal punto di vista della formazione. Una nuova identità femminile si fa strada, le donne vogliono realizzarsi su tutti i piani e il lavoro diventa un aspetto identitario fondamentale.

Permangono forti le differenze territoriali. Nel 2018 nel Mezzogiorno solo il 32,2% delle donne tra i 15 e i 64 anni lavora (59,7% nel Nord), un valore inferiore alla media nazionale delle donne nel 1977 (33,5%). Il tasso di occupazione maschile del Mezzogiorno viene superato dal tasso di occupazione delle donne del Nord durante la recente crisi economica e il divario da allora non ha fatto che ampliarsi (dal +0,9% nel 2012 al 3,3% del 2018).

La perdita di occupazione per gli uomini è stata molto più forte nel Mezzogiorno che nelle altre ripartizioni (-16,2 pp, contro -1,0 pp del Nord e -4,3 del Centro), ma anche la crescita del tasso femminile è stata molto meno marcata nelle regioni meridionali (+6,8 pp contro +20,2 nel Nord e +23,4 nel Centro).
Il forte peggioramento della componente maschile ha fatto sì che comunque anche nel Mezzogiorno si sia dimezzato il divario di genere, in misura analoga alle altre aree del paese ma di contro è più che raddoppiato il divario tra le donne del Nord e quelle del Mezzogiorno.

Si evidenzia per entrambi i generi un invecchiamento della popolazione occupata, ed emerge il peggioramento diffuso della condizione maschile per tutte le età sotto ai 50 anni a fronte di un aumento della partecipazione femminile dai 30 anni in su.
In particolare se per i maschi il picco del tasso di occupazione nel 1993 si raggiungeva nella classe di età 35-44 (93,2%), venticinque anni dopo il valore massimo è di nove punti percentuali più basso (84,2% nel 2018), si raggiunge nella medesima classe di età ed è praticamente identico a quello che si stima per la classe di età 45-54.
Anche per le donne il massimo nel 2018 si raggiunge nella fascia di età 35-44 anni, ma è di soli 0,4 punti percentuali superiori al valore del 1993 mentre il tasso nella classe 45-54 anni è cresciuto di quasi 9 punti (dal 63,6% al 72,3%).

Due fattori principali sostengono il cambiamento nella partecipazione delle donne al mercato del lavoro: maggiore livello di istruzione e cambiamento culturale nei confronti del lavoro.
Nel 2018 il tasso di occupazione delle laureate è 75,3% (il gap di genere passa da circa 30 punti percentuali tra chi ha al massimo la licenza elementare a poco più di 8 punti di chi ha la laurea).

2.2 Le tendenze più recenti: le donne hanno recuperato i livelli di occupazione precedenti la crisi

Volendo analizzare le dinamiche più recenti, ed essendo per il 2019 disponibili le stime solo per i per i primi 3 trimestri, si presentano in questo paragrafo alcuni confronti temporali sulla media dei primi trimestri degli anni dal 2007 al 2019. In questo periodo fortemente segnato dalla crisi economica, il gap di genere nei tassi di occupazione è diminuito di 6,3 punti percentuali. Si tratta di una riduzione dello stesso ordine di grandezza di quella già registrata nel periodo tra il 1994 e il 2007.

Le ragioni che sottendono questa medesima dinamica sono però diverse: mentre nel periodo dal 1994 al 2007 la riduzione del gap è stata frutto della crescita dell’occupazione femminile, nel periodo 2007 al 2019 vi ha contribuito non poco il calo dell’occupazione maschile. In sostanza, le donne hanno retto meglio all’impatto della crisi da un punto di vista quantitativo, hanno perso meno occupazione e l’hanno recuperata prima. In questo processo di riassestamento non tutte le generazioni di donne si sono trovate nella stessa situazione.

Dall’inizio della crisi le ultracinquantenni hanno visto crescere il loro tasso di occupazione di oltre 20 punti percentuali (dal 23% del t1-t3 2007 al 44,6% del t1-t3 2019), perché permangono più a lungo nel mercato del lavoro, dato anche l’elevamento dell’età pensionabile; le 25-34enni sono, invece, ancora quasi 5 punti percentuali sotto i livelli pre-crisi. I loro coetanei maschi hanno visto scendere il tasso di occupazione di circa 10,5 punti (da 81,0% al 70,4%).

Inoltre, mentre per i maschi per tutte e tre le ripartizioni solo gli ultra cinquantacinquenni hanno superato e anche abbondantemente i livelli pre-crisi (di oltre 25 e 20 punti percentuali rispettivamente al Nord e Centro e di circa 11 punti al Sud), per le femmine la situazione risulta più variegata. Oltre le over 55, hanno superato i livelli pre-crisi in tutte le ripartizioni anche le over 45, mentre al Centro e al Sud il recupero dei livelli pre-crisi ha riguardato anche le donne tra i 35 e i 44 anni.

Occorre sottolineare però che in queste due ripartizioni si partiva da livelli di partecipazione più bassi e quindi più facilmente recuperabili. Inoltre, le stime mettono in luce come il recupero e il superamento dei livelli pre-crisi abbia interessato sostanzialmente solo le laureate.

2.3 Differenze di genere nella transizione al lavoro di laureati e dottorati

Le analisi – declinate per genere – sui livelli di istruzione raggiunti e la successiva transizione scuola-lavoro, ben rappresentano lo scarso utilizzo del capitale umano in Italia particolarmente marcato per la componente femminile. Le giovani donne hanno livelli di istruzione più elevati rispetto ai loro pari uomini tuttavia si registrano grandi differenziali, a loro sfavore, nei tassi di occupazione all’uscita dagli studi.

In Italia, circa 1 giovane tra i 25 e i 34 anni su 100 ha conseguito un titolo di dottorato. In Europa i valori oscillano tra il 2,3 di Danimarca e Germania e lo 0,2 di Malta. Come per la laurea, nel nostro Paese, il divario di genere è a favore delle donne che rappresentano circa il 54% dei dottori di ricerca, questo risultato è condiviso con pochi paesi (Slovenia, Slovacchia, Spagna, Lettonia e Cipro).
I dottori di ricerca mostrano livelli occupazionali particolarmente alti. Nel 2018, a sei anni dal conseguimento del titolo, lavora il 93,8% dei dottori di ricerca. Il divario di genere è di 3,1 punti percentuali, in diminuzione rispetto ai 4,9 punti percentuali riscontrati per le coorti osservate nel 2010. Il 21,3% dei dottori ha iniziato l’attuale lavoro prima del titolo (era il 30,6% per la coorte 2008).

Il cammino di avvicinamento verso il lavoro osservato nel 2018 è leggermente più lento per le donne che per gli uomini: lo scatto più rilevante in termini di punti percentuali nei tassi di occupazione si rileva tra il quarto e il quinto anno per entrambi i gruppi; tuttavia per le donne quello scatto è il più intenso (19,6 pp contro i 15,5 pp degli uomini), mentre per gli uomini la crescita è più intensa di quella delle donne in quasi tutti i periodi precedenti.

Anche per i dottori di ricerca donne si conferma un inquadramento occupazionale caratterizzato da maggiore precarietà. Fatte 100 le donne nella coorte di dottorati nel 2012, il 41,6% ha stipulato un contratto a tempo determinato, il 22,2 svolge un lavoro di collaborazione, il 15,2 riceve un assegno di ricerca o una borsa di studio, mentre la composizione per i dottori maschi è rispettivamente 48,9%, 18,5 e 12,6. 9

Differenze di genere si rilevano anche nelle mansioni svolte al lavoro e nei settori di inserimento lavorativo. Solo il 65,7% delle donne svolge mansioni di ricerca e sviluppo contro il 74,4% degli uomini.
I settori di occupazione vedono le donne maggiormente inserite in quelli di istruzione non universitaria (21,3% contro 12,3%), e gli uomini di più in quella universitaria (26,2% contro il 22,1%). Un altro settore importante di inserimento lavorativo delle donne è quello della PA e della sanità (19,0% delle donne contro il 15,3% degli uomini). Il divario di genere è più ampio nel settore agricoltura e industria (18,4 pp) e in quello delle attività professionali (10,6 pp).

Per i dottori di ricerca si riscontra un divario di genere nel livello di reddito netto mensile percepito a sei anni dal conseguimento del titolo: le donne guadagnano 1610 euro mentre gli uomini arrivano a 1983 con un divario medio di 373 euro.

L’indagine sull’Inserimento professionale dei laureati mostra come per le donne sia più complesso trovare una collocazione sul mercato del lavoro adeguata al percorso di istruzione seguito.
Le laureate di primo livello, occupate a quattro anni dal conseguimento del titolo, svolgono una professione consona al loro livello di istruzione nel 67% dei casi. Nel caso dei laureati di primo livello la stessa percentuale supera il 79%.

Le professioni impiegatizie e quelle addette alle vendite e ai servizi rappresentano lo sbocco per il 31,4% delle laureate di primo livello che lavorano, quasi il doppio della stessa percentuale relativa ai laureati.
La distribuzione per professione è invece più bilanciata nel caso dei laureati di secondo livello, per i quali si considera adeguata una professione dirigenziale, imprenditoriale o di elevata specializzazione: in questo caso le giovani laureate distano meno di 2 punti percentuali dai colleghi di sesso maschile.

Così come rilevato per i dottori di ricerca, esiste anche per i laureati un divario di genere nel livello di reddito netto mensile a tre anni da conseguimento del titolo e si quantifica in 233 euro nel caso dei laureati di primo livello e in 275 euro per quelli di secondo livello; su tale differenza influisce la diversa incidenza di lavoro part-time, che riguarda una quota di laureate pari a più del doppio dei laureati (33,5% nel caso delle laureate di primo livello e 25,2% nel caso delle laureate di secondo livello).

Se calcolato sui lavoratori a tempo pieno, il divario retributivo si dimezza nel caso dei laureati di primo livello e si riduce a 217 euro nel caso dei laureati di secondo livello.

2.4 Le donne nelle posizioni apicali, le imprenditrici e le libere professioniste

Si assiste ad una ricomposizione della struttura per posizione professionale delle occupate. Le lavoratrici dipendenti sono aumentate in 10 anni dal 2008 al 2018, sia quelle a tempo indeterminato (+370 mila) che quelle a tempo determinato (+273 mila).

Le lavoratrici indipendenti sono invece diminuite di 137 mila unità. Il calo deriva dal dimezzamento delle collaboratrici e dalla diminuzione delle coadiuvanti e delle lavoratrici in proprio senza addetti.
Crescono invece le libere professioniste di circa 100 mila unità.
In aumento in particolare avvocate, psicologhe, tecniche della gestione finanziaria, contabili.
La quota di lavoratrici dipendenti che, a prescindere dalla qualifica, dichiarano di coordinare il lavoro di altre persone è pari nel 2018 al 18,4%, una quota in leggera crescita rispetto al 2017 e anche rispetto al 2008. Il gap con gli uomini è di 5,4 punti percentuali.

La crisi economica ha inciso anche sul pubblico impiego: negli ultimi 10 anni i dipendenti sono diminuiti di circa 200 mila unità (- 6%), calo che ha coinvolto soprattutto gli uomini (-12.3% vs -1%). Tuttavia la Pubblica amministrazione continua a svolgere un ruolo importante nell’innalzamento dei livelli occupazionali delle donne: circa 1/5 delle donne è occupata nella PA.
Il settore pubblico non sembra tuttavia favorire pari opportunità di carriera per il persistere di stereotipi culturali e rigidità dei contesti organizzativi.

Le donne sono ancora sotto-rappresentate nelle posizioni apicali, specie in alcuni comparti. Tuttavia emergono alcuni segnali positivi: ad es. le donne magistrato in 23 anni sono passate dal 25,8% a oltre il 50%. I progressi più marcati si registrano nei dirigenti apicali degli Enti Locali, Ministeri e Scuola, mentre è ancora troppo bassa la quota di donne ambasciatore e primario nella Sanità.

Alcuni segnali positivi emergono sul fronte della presenza femminile nei luoghi decisionali e politici, in aumento costante anno dopo anno.

Le elezioni del 2018 hanno portato la quota di elette nel Parlamento italiano dal 30,7% della precedente legislatura al 35,4% dell’attuale.
Dopo le elezioni del parlamento europeo del 2019 la rappresentanza italiana femminile è al 41%, raddoppiata dunque rispetto agli esiti delle elezioni del 2009 ma stabile rispetto al 2014 quando era il 40%, in linea con la media europea (41%).
Molto più arretrata, e sostanzialmente stabile la situazione delle donne elette nei Consigli regionali: nel 2020 nel totale dei Consigli regionali italiani le donne sono soltanto il 21,1%.
Le donne sindaco nel 2019 sono mille e 131 pari al 14,3% del totale e amministrano una popolazione di poco più di 10 milioni di abitanti (10.026.670 pari al 16,6% della popolazione totale), tutti valori in leggero aumento rispetto al 2018 ma comunque molto bassi.

Bassa è ancora la rappresentanza femminile in alcuni organi decisionali presenti nel nostro Paese.
Alla data di ottobre 2018, le donne presenti in tali organi decisionali (Corte Costituzionale, Consiglio Superiore della Magistratura, Autorità di Garanzia, Consob, Ambasciatrici) sono in media solo il 16,8%, seppure in aumento rispetto al 2013.

Continua a crescere a ritmo sostenuto, invece, la presenza delle donne nei consigli di amministrazione delle società quotate in borsa, anche grazie agli interventi normativi in materia. Nel 2017 è stata superata la quota 30% (31,6%) e nel 2019 si è raggiunta quota 36,4%.
E’ un risultato raggiunto grazie alla legge Golfo-Mosca sulla parità di genere nei Cda delle società quotate e al DPR 251/2012 sulla rappresentanza nelle controllate pubbliche che prevedono quote minime del genere meno rappresentato nei Consigli di amministrazione e di sorveglianza di queste società.

La presenza delle donne nei consigli d’amministrazione, infatti, sta aumentando anche tra le società non quotate, non interessate dalle norme in materia, ma la tendenza è molto più lenta e rimane al di sotto della soglia di un terzo prevista per le quotate.
Inoltre, studi recenti sugli effetti della legge Golfo Mosca confermano gli effetti in termini di presenza nei board ed evidenziano un aumento della probabilità di promuovere una donna ad amministratore delegato tra le società quotate.
Non si ha ancora, invece, evidenza robusta di possibili effetti delle misure di genere sulla presenza di donne manager o in generale di occupate donne in azienda né di un maggior peso delle donne nella parte alta della distribuzione del reddito all’interno dell’impresa.

2.5 La qualità del lavoro delle donne in peggioramento

Il periodo della crisi si è accompagnato ad un peggioramento della qualità del lavoro delle donne. Il peggioramento si è evidenziato nella precarietà, nella crescita del part time involontario, nella crescita del fenomeno della sovraistruzione.
La percentuale di donne che lavorano a tempo determinato ha raggiunto nella media dei primi tre trimestri 2019 il 17,3%.

Le donne in part time sono ormai un terzo (32,8% nella media dei primi tre trimestri 2019) contro l’8,7% degli uomini. L’incidenza delle occupate part time è più elevata tra le più giovani (35,1% fino a 34 anni) e cresce al diminuire del titolo di studio (42,6% fino alla licenza media e 22,5% tra le laureate). I comparti in cui il part time è più diffuso sono gli alberghi e ristoranti (47,3%) e i servizi alle famiglie (58,4%); mentre le professioni in cui si segnalano le maggiori incidenze di part time sono quelle non qualificate e quelle svolte nelle attività commerciali e nei servizi.

Il part time non è cresciuto come strumento di conciliazione dei tempi di vita, ma fondamentalmente nella sua componente involontaria che ha superato il 60% del totale in t1-t3 2019 contro il 34,9 dello stesso periodo del 2007).
L’incidenza del part time involontario è più elevata tra le giovani 15-34 anni e al diminuire del titolo di studio. È diffuso soprattutto negli alberghi e ristoranti, nella grande distribuzione e nei servizi alle imprese e alle famiglie. Il part time è sempre più uno strumento utilizzato per la flessibilità dal lato delle imprese piuttosto che dal lato delle persone e delle loro esigenze di conciliazione dei tempi di vita.

Il forte incremento del part time ha investito anche il lavoro a termine, tanto che nella media dei primi tre trimestri 2019 il 43,5% delle lavoratrici a tempo determinato ha un lavoro part time, sperimentando così una condizione di doppia vulnerabilità, soprattutto se si considera che nell’82,1% dei casi il part time è di tipo involontario (era il 64,0% in t1-t3 2008).

La sovraistruzione, misurata come percentuale di occupati che possiedono un titolo di studio superiore a quello che serve per svolgere quella professione sul totale degli occupati, cresce per entrambi i generi ma nonostante titoli di studio più elevati le donne incontrano maggiori difficoltà a trovare un lavoro adeguato al titolo di studio conseguito.

La situazione è particolarmente critica per le laureate (35,2% nella media dei primi tre trimestri 2019) e per le giovani fino a 34 anni (42,0%).
È maggiore tra le donne anche la quota di dipendenti con bassa paga (9,5% contro 5,8% in t1-t3 2019), ossia con una retribuzione oraria inferiore a 2/3 di quella mediana, soprattutto nel commercio, nella ristorazione e nei servizi alle famiglie. La bassa paga riguarda quasi il 16% delle giovani fino a 34 anni, e quasi il 17% di quelle con al massimo la licenza media inferiore.

per continuare a leggere:
https://www.oralegalenews.it/wp-content/uploads/2020/02/Memoria_Istat_Audizione-26-febbraio-2020.pdf
https://www.oralegalenews.it/wp-content/uploads/2020/02/Istat_allegato-statistico_26-febbraio-2020.pdf

Image credit: Plastic art by Veronika Richterová
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