
Il senso di giustizia
di Letizia Carrera (Docente di sociologia – Uniba)
Il concetto di giustizia non ha un valore assoluto, è invece mutevole nel tempo e nello spazio. Società diverse hanno diversamente definito cosa fosse giusto e cosa non lo fosse e anche quello che a noi sembra quasi “naturale” considerare giusto, è in realtà un prodotto culturale, una rappresentazione socialmente costruita.
Le norme giuridiche definiscono in maniera relativamente chiara cosa sia “giusto”, incorporando e traducendo questo concetto all’interno del dettato normativo che definisce i confini di ciò è legale e di ciò che non lo è.
Viene costruito così un meccanismo condizionale sanzionatorio, come lo definiva Kelsen, che ricollega una sanzione ad ogni violazione delle norme stesse.
A questo concetto di giustizia retributiva, che si basa su di un sistema di sanzioni e ricompense proporzionali alle azioni poste in essere, si affianca, nel nostro ordinamento, quello di giustizia distributiva, riferita a un’equa distribuzione delle risorse.
La nostra Costituzione fa del senso della giustizia il fondamento della stessa legittimità costituzionale come emerge con chiarezza in molti articoli e in modo particolare dal primo e soprattutto dal secondo comma dell’articolo tre della nostra Carta riferito al compito dello Stato di tutelare l’uguaglianza sostanziale oltre che formale dei cittadini.
La collocazione di questo e di un’altra serie di diritti nel novero dei principi fondamentali della Costituzione stessa, fa si che la tutela dei diritti sia intimamente connessa al senso di giustizia garantita da una serie di norme procedurali, ma anche da una serie di contenuti sostanziali in grado di assicurare, come osservato, la legittimità costituzionale delle leggi stesse.
Scrive Boudon (2002) che il tema della giustizia mostra di avere un ruolo del tutto cruciale nella riflessione teorica della società attuale, nella quale il consenso si concentra sulla distribuzione dei beni.
I sentimenti di giustizia legati alla piena attuazione del diritto all’uguaglianza sostanziale oltre che formale, sono alla base dell’affermazione del welfare state e alla tutela delle differenze e alla compensazione delle disuguaglianze che esso ha nelle sue finalità fondamentali.
È sulla base del nostro sentimento di giustizia che si fanno richieste pressanti di inclusione e/o di non-esclusione, di non discriminazione.
Infatti, oltre questa dimensione normativa costituzionale e normativa che omogenizza formalmente i parametri di ciò che è giusto in un dato sistema sociale, però, vi è una dimensione culturale più legata alla specifica cultura vissuta dai soggetti che fonda i più personali sentimenti di giustizia, che possono essere allineati e conformi a quelli normativamente e socialmente definiti, ma possono anche divergere o addirittura collidere con quelli.
Quello che oggi ci sembra ovvio considerare giusto o ingiusto, cioè, è il risultato di un processo di incorporazione di valori e modelli normativi ai quali siamo stati socializzati, che si sono radicati entro il nostro sistema di valori ed operano in modo latente.
Anche il concetto di giustizia, cioè, è uno dei valori che incorporiamo nel quadro del più ampio processo di socializzazione e che diventa criterio delle nostre scelte e delle stesse aspettative che nutriamo nei confronti del contesto sociale e normativo più ampio come anche verso singoli soggetti.
Questo processo di socializzazione ai valori se è mutevole nel tempo e nello spazio, lo è anche all’interno dello stesso contesto sociale. Può essere diversificato, infatti, in base allo specifico gruppo di appartenenza e alla specifica subcultura di cui quello è portatore.
È proprio all’interno di questo complesso processo che si definiscono i contenuti delle personali rappresentazioni sociali di ciò che è giusto, e che diventano il parametro per guardare e per “giudicare” il mondo e quello che vi accade.
Questi contenuti infine, possono essere ulteriormente “corretti” o addirittura ridefiniti dalle esperienze che ciascun soggetto vive nel proprio quotidiano. La possibilità che quello che i soggetti vivono interferisca o meno, e in misura più o meno marcata, con le loro convinzioni dipende dal carattere normativo o invece cognitivo delle loro aspettative.
Nel primo caso le idee che si hanno della realtà e della giustizia non si modificano neanche a fronte di violazioni ripetute, nel secondo caso invece, le nostre idee “apprendono” dalla realtà e si modificano in relazione a quello che accade.
Questo significa che vi sono coloro che anche quando si confrontano con una serie ripetuta di comportamenti definibili come “ingiusti” continuano a mantenere sostanzialmente inalterata la loro idea di giustizia, mentre vi sono altri che cominciano a ritenere “normale” e finanche “giusto” un comportamento anche profondamente difforme dalla loro idea iniziale di giustizia.
Questo se da un lato si iscrive nella normale dinamica del cambiamento dei valori e delle norme, dall’altro può portare ad un eccessivo “peso” della realtà sulla dimensione valoriale e normativa e di uno schiacciamento della seconda sulla prima.
Quando a fronte di un’ingiustizia non accade nulla, non interviene alcuna risposta da parte dell’ordinamento giuridico o dal punto di vista sociale, il rischio è che ci si abitui all’ingiustizia e si finisca per considerarla “normale”, parte del normale andamento delle cose.
Utile a questo punto ricordare quello che osserva Boudon quando scrive che si desidera solo ciò che si ritiene ragionevolmente di poter ottenere.
Ne consegue, quindi, che una prolungata esposizione a ciò che si ritiene essere una condizione di ingiustizia, a volte sotto la forma di “negata giustizia”, rischia di far cessare del tutto le attese di giustizia con conseguenze gravissime in termini di comportamenti successivi.
Come osservava Durkheim, infatti, la devianza in sé non è lesiva dell’ordine sociale, perché l’indignazione che l’atto deviante suscita nella coscienza collettiva, riconferma l’esistenza della norma morale oltre che giuridica.
Maggiori sono il radicamento e il peso di quella norma all’interno della coscienza collettiva, maggiore è il livello di indignazione che si produce e questo ricompatta e addirittura rinforza il senso di integrazione e di appartenenza sociale e rafforza il legame sociale.
Il crimine, la violazione della norma rende la società consapevole del proprio ordine morale e del senso di giustizia violata e la sanzione assume il ruolo di strumento attraverso il quale la società ricompatta sé stessa e i suoi membri attorno al suo ordine simbolico e normativo.
Quello che invece mette in discussione l’ordine sociale è la mancanza di una adeguata risposta sociale, normativa e giuridica alla devianza stessa, perché viene così alterato il sistema complessivo delle norme e della loro forza vincolante e delle conseguenze delle loro violazioni.
La pena che assolve al compito di sostenere l’ordine morale e di prevenirne l’erosione e il collasso viene a mancare e si fa alto il rischio di una condizione anomica.
La delusione conseguente al mancato rispetto delle regole di giustizia, può dar luogo a due tipi di frustrazione: quella rassegnata e quella contestatrice. Dalla prima scaturiscono comportamenti di accettazione della situazione e di rinuncia a ogni tentativo di intervento e di modifica della realtà, fino a comportamenti di conformità a quella che si considera una situazione inevitabile.
Dalla seconda, al contrario, possono prendere origine richieste e azione di protesta tese a modificare la situazione in funzione del ripristino dei criteri di giustizia e di legalità considerati validi anche se contingentemente violati.
Questo significa che quando posti di fronte a una serie di ingiustizie che non vengono sanzionate, vi sono soggetti che “resistono” nelle loro convinzioni e continuano a credere nella giustizia e a invocare le “giuste” conseguenze per chi ha commesso reati o violazioni delle norme sociali, mentre ve ne sono altri che “imparano” a pensare che le cose non possono andare in altro modo che così.
Al di là del peso specifico che i diversi tipi di risposte sociali e giuridiche sono in grado di avere nel rinforzare o alterare le rappresentazioni dei soggetti, appare evidente la loro capacità di influenzare la definizione di situazione che i soggetti hanno della realtà sociale stessa.
Il processo può mostrare esiti finanche più drammatici nella misura in cui le risposte sociali non solo influenzano le scelte dei soggetti, ma arrivano a rappresentare forme di mertoniane profezie che si autoadempiono. In alcuni casi cioè convincersi che la giustizia non sarà praticata può portare alla scelta di non denunciare nemmeno l’ingiustizia e la convinzione di non poter cambiare le cose, può spingere a non fare nulla per tentare di cambiare il sistema. Un basso grado di autoefficacia infatti è uno dei più potenti deterrenti verso ogni azione individuale e collettiva di protesta e di impegno.
Questo, inoltre, può attivare o quantomeno amplificare dinamiche di free riding, cioè di quei comportamenti di stampo del tutto particolaristico propri di coloro che non partecipano ad una azione collettiva per non doverne sopportare i costi, sapendo di non poter essere esclusi dagli eventuali benefici che dovessero scaturirne.
La mancanza di una adeguata risposta sociale cioè, può aumentare il numero dei comportamenti orientati in senso particolaristico che hanno come criterio il proprio personale interesse o, al più, quello della propria famiglia e del proprio gruppo amicale.
Il rischio è quello di un’amplificazione del familismo amorale di cui scriveva Banfield negli anni ’50, e della scelta dei soggetti di trovare “soluzioni individuali” al problema della violazione delle norme piuttosto che il richiamo a comportamenti universalistici da parte delle istituzioni.
Il forte legame tra rappresentazioni sociali della giustizia e il sistema dei valori dominanti è evidente nella quota di devianza quasi “legittimata” socialmente, come osservava Sutherland, a proposito dei white collars crimes, quel particolare genere di reati, quasi sempre sottovalutati e impuniti, commessi da esponenti della borghesia delle professioni, da leader della politica e dell’economia.
I reati dei colletti bianchi (falso in bilancio, aggiotaggio, evasione o elusione fiscale, corruzione e collusione…) appaiono più che tollerati socialmente, quasi fossero una sorta di zona grigia tra il nero della criminalità e il bianco della legalità.
La tolleranza nei confronti di questi crimini, definiti anche “senza vittime”, come ad alleggerire il peso delle conseguenze invece finanche in realtà pesantissime sulla vita delle persone, è spiegato dal fatto che le finalità che perseguono sono sostanzialmente in linea con i valori propri della società stessa, profitto, guadagno, furbizia, uso strategico delle norme, ecc.
Quello che è accaduto durante il periodo di “Mani pulite” ne ha rappresentato un esempio evidente: quando ancora ci si scandalizzava dinanzi ad un sistema strutturato di corruzione, concussione e collusione rivelato dalle registrazioni delle tangenti chieste e date come fosse “normale” messo in luce dalle indagini degli allora procuratori di Milano, c’era comunque chi pensava che fosse eccessivo “accanirsi” su coloro che avevano violato le regole.
Il suicidio di personalità di spicco come quella di Raul Gardini, aveva consentito ad una serie di personaggi direttamente o indirettamente coinvolti nel sistema di attaccare i giudici e la loro voglia di “giustizialismo”.
Da quel periodo le cose sono addirittura peggiorate e sempre più l’Italia si è resa scenario di una sostanziale impunità dei reati pecuniari, per non dire del valore simbolico oltre che pratico della depenalizzazione di una serie di reati fiscali come il falso in bilancio.
In tema di giustizia si è andata così nel tempo consolidando l’esistenza una sorta di “doppio binario” che tratta diversamente i reati comuni e quello dei “colletti bianchi”.
Doppio binario che viene spesso rinforzato dall’uso strategico delle parole in grado, spesso, di alterare le rappresentazioni diffuse della giustizia e dell’amministrazione di quella.
Così come fa notare anche Gagliardi nel suo saggio, le scelte dei magistrati se sembrano espressione del “normale corso della giustizia” quando emettono una sentenza a carico di un “cittadino qualunque”, si traducono in un “attacco politico” quando rivolte ad un esponente politico anche se sotto processo per reati finanziari che nulla hanno a che fare con la sua carica o il ruolo ricoperto, anzi a volte commessi proprio in virtù di quelli. In questo gioco semantico e simbolico rivestono un ruolo di primo piano i mass media, che sono in grado di enfatizzare o di lasciare in ombra o di “far scivolare” al di là della soglia dell’attenzione, in realtà in Italia molto bassa, alcuni eventi criminosi a volte anche molto gravi.
La successione di questi eventi, la loro frequenza che traguarda una sorta di “normalità”, ha finito con l’alterare profondamente la percezione della legalità e della giustizia e della sua amministrazione.
La ricerca di cui si sono discussi in questa sede i risultati ha mostrato con chiarezza quanto le fonti alle quali i ragazzi e i più giovani fanno riferimento sono molto spesso i social network e i discorsi ascoltati in famiglia.
Manca quasi del tutto il ruolo della scuola nel discutere queste notizie e gli eventi che riguardano la giustizia anche in senso lato. Questo significa che nei più giovani finisce per non essere sufficientemente costruita ed esercitata la competenza critica e la cultura politica che li porrebbe nelle condizioni di affrontare in modo consapevole gli eventi quotidiani con i quali entrano in contatto o di cui hanno notizia, e soprattutto lo priva della possibilità di elaborare richieste fondate e strutturate da rivolgere alle diverse amministrazioni nella loro qualità di cittadini.
Occorre quindi ribadire con forza la responsabilità innanzitutto della politica nel ricostruire un rapporto sano dei cittadini con l’idea stessa della giustizia, quella dei media nel riguadagnare il proprio ruolo, purtroppo spesso lasciato in ombra, di coscienza civile e di vigile attenzione nei confronti della politica, come nella migliore tradizione giornalistica anche italiana.
Ma accanto a questi soggetti, è da porre in primo piano la funzione delle famiglie che devono essere pienamente consapevoli della centralità del loro ruolo di costruzione della cultura politica critica attraverso la pratica quotidiana dei comportamenti come anche delle discussioni e dei ragionamenti posti in essere quotidianamente.
Fondamentale infatti è ricordare quanto i ragazzi apprendano a livello infromale all’interno delle agenzie socializzative, e quanto gli atteggiamenti e le convinzioni si costruiscano anche a partire dai discorsi ascoltati distrattamente anche nelle discussioni che non li vedono direttamente coinvolti.
La socializzazione politica, parte del più ampio processo di socializzazione culturale trova proprio nella famiglia un ambito del tutto privilegiato e fondante.
Un ruolo altrettanto centrale è, infine, quello del sistema formativo chiamato ad assolvere la sua funzione di socializzazione con una qualità diversa dalla famiglia a partire dalla qualità e dalle competenze professionali dei suoi operatori.
Per rendere più chiaro quanto si va osservando, mentre le famiglie possono non possedere le competenze per affrontare e governare in modo adeguato il processo di socializzazione dei propri membri più giovani, il sistema formativo ne è investito in modo specifico e gli insegnanti sono professionalmente investiti da tale funzione anche all’interno delle singole competenze disciplinari.
La pratica scolastica, come quella sportiva, associativa, parrocchiale ecc., sono momenti importanti nei quali si sperimenta e si va definendo il senso di giustizia dei giovani e giovanissimi.
Il modo con il quale le ingiustizie piccole o grandi, o anche solo gli eventi percepiti come tali dai ragazzi, vengono gestiti dagli operatori (insegnanti, istruttori, parroci, catechisti, responsabili delle associazioni, …) diventa un tassello importante del complesso mosaico che si va componendo processualmente nel tempo e che finirà con l’orientare e nell’influenzare, certo al di fuori di ogni determinismo, anche l’atteggiamento e il senso di giustizia più ampio che i ragazzi matureranno nel tempo e che comporrà una parte normativa essenziale della loro coscienza sociale e politica.
Photo credit: www.ioamolasicilia.com/cretto-di-burri
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