
No PASdaran
di Fabio Roia (Presidente Vicario del Tribunale di Milano)
La cosiddetta “sindrome” da alienazione genitoriale o da anaffettività genitoriale (PAS) è stata ipotizzata da uno studioso americano, tale Gardner, come una ipotetica e controversa dinamica psicologica disfunzionale che si attiverebbe sui figli minori coinvolti in contesti di separazione e di divorzio conflittuali dei genitori non adeguatamente mediate.
Questa “sindrome” non ha alcun tipo di fondamento scientifico.
Cito da ultimo un documento del Ministro della salute del 29.5.2020 il quale, in risposta a una richiesta della presidente della commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, la Senatrice Valeria Valente, ha risposto che questa “sindrome” è oggetto di dibattito in diversi Paesi, ma ad oggi però non è riconosciuta come disturbo psicopatologico dalla grande maggioranza della comunità scientifica e legale internazionale.
E anche negli Stati Uniti è soggetta ad amplissime discussioni.
Dice sempre il Ministro della salute che questa “sindrome” non risulta inserita in alcuna delle classificazioni in uso, come la International classification of deseases (ICD11) o il Diagnostic and statistical manual of mental disorder (DSM5), in ragione della sua evidente ascientificità dovuta alla mancanza di dati a sostegno.
Sempre nello stesso documento, l’Istituto superiore di Sanità segnala che su questo argomento è in corso un vivace dibattito nella comunità scientifica, anche e soprattutto per il rischio di utilizzo strumentale di una definizione priva di validità diagnostica nelle controversie che coinvolgano i minori.
Che cosa accade nella realtà dell’esperienza giudiziaria?
Che a prescindere dal nome di questa “sindrome”, che adesso non viene più ovviamente chiamata esplicitamente PAS, bensì “alienazione genitoriale”, “anaffettività genitoriale” o attraverso l’abuso del termine “conflittualità”, si tende a penalizzare ulteriormente la donna che sia stata vittima di violenza, nel momento in cui il minore magari o certamente spettatore di violenza, quindi vittima di quella che viene definita violenza assistita, che il Codice Rosso ha reintrodotto come fattispecie autonoma di reato, non intende avere rapporti con la figura paterna.
Qual è l’operazione che taluni consulenti tecnici, invocando questa “sindrome”, compiono?
Quella di dire che sostanzialmente il minore rifiuta i colloqui, i contatti, i rapporti con il genitore paterno perché la madre attiverebbe un’influenza sul suo comportamento; farebbe una sorta di brain washing, finalizzato a mettere “il bambino contro il padre”.
Tutto questo è assolutamente privo di criticità.
Perchè in un percorso logico che andrebbe compiuto, bisognerebbe porsi il problema, doveroso da parte del Giudice della separazione o del Giudice minorile, se un minore che ha assistito a scene di violenza, che ha vissuto in un clima dove veniva esercitata violenza nei confronti di una donna e quindi della propria madre, non voglia, in via principale, vedere il padre perchè ha in mente un modello di genitore violento.
Un modello che deve rifiutare.
Invece accade con troppa frequenza che questa prima ipotesi, che è anche coerente con quella che viene chiamata diagnosi differenziata, venga immediatamente accantonata o scartata, dicendo in maniera pretestuosa che non è compito del giudice civile accertare, anche incidentalmente, la situazione di violenza, quando questo gli viene chiesto espressamente dall’art. 31 della Convenzione di Istambul che è legge immediatamente applicabile e positiva nel nostro ordinamento.
Questo sarebbe compito del giudice penale e quindi, scartata questa ipotesi, si passa subito, comunque essa venga definita, ad un accertamento di quella che una volta veniva chiamata PAS e che adesso, forse per una forma di pudore, vista l’affermata esclusione di tale sindrome da una dignità scientifica e di letteratura anche giudiziaria, alcuni consulenti che la propugnano tendono a camuffare.
Peraltro, la pronuncia della Corte di Cassazione sul punto, ormai risalente al 2013, ha bollato come ascientifica e quindi priva di validazione, questo tipo di attività che viene chiamata sindrome.
Bisogna che il Giudice ordinario o minorile, che eventualmente dia incarico ai consulenti, effettui un controllo penetrante su quello che i consulenti propongono. In particolare, se un consulente parla di sindrome da alienazione genitoriale, definita in qualsiasi modo, senza accertare preventivamente se una delle cause di rifiuto del minore sia proprio quella di non volere vedere un padre che lui ricorda violento, il Giudice deve convocare il consulente, attivare un contraddittorio con il consulente di parte e certamente anche con il P.M., che è parte necessaria nel procedimento in cui si decide dell’affidamento di un minore, per cercare di capire lo sviluppo del suo ragionamento.
Sarebbe anche importante, prima di nominare un consulente tecnico, guardarne la sua formazione, e quindi vedere se nella sua bibliografia, o comunque nel suo percorso scientifico, c’è qualche riferimento, come spesso accade, a citazioni di Gardner o di altre persone che hanno seguito questa teoria.
In sintesi, bisogna far sì che questa sindrome non abbia ingresso nei nostri tribunali comunque essa venga chiamata; che chi la propugna venga sottoposto a un rigoroso controllo da parte del giudice, il quale avrà il compito di verificare primariamente se il minore rifiuta la relazione con il padre, anche con un accertamento di natura incidentale, perché esposto per lungo tempo a situazioni di violenza.
Cosa che determina un trauma diretto e indiretto nei confronti del bambino il quale può avere legittimamente una forma di rifiuto.
Se si vuole recuperare, sempre nell’interesse del minore, il rapporto sulla bigenitorialità, occorre che se siamo di fronte ad un padre violento, questo dovrà prima rimuovere tutte le proprie devianze, prenderne consapevolezza, seguire un percorso di abbandono. Soltanto dopo potrà essere riallacciato un rapporto sano tra il minore e il genitore in passato violento.
Bisogna quindi insistere sul piano della conoscenza di questi concetti e quindi sul piano della formazione, della professionalità dei giudici, degli avvocati che assistono le parti e, non da ultimo, dei consulenti tecnici siano essi psicologi (soprattutto) o neuropsichiatri (infantili o no).
L’ultima parola, in ogni caso, spetta alla magistratura che non deve affidare la decisione, anche in maniera comoda, delegandola al consulente tecnico, ma deve, evitando di medicalizzare il processo civile o penale attraverso l’abuso di CTU, assumersi la responsabilità di una decisione che sia consapevole di questa e di altre problematiche.
Image credit: Kira Hoffmann da Pixabay
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