Percorsi di recupero?
di Piero Buscicchio (Psicologo e psicoterapeuta in Bari – Uomini in Gioco/Maschile plurale)
Il duplice femminicidio di Vicenza, ancora una volta ha tragicamente posto in evidenza alcuni temi, critici e controversi, riguardanti la violenza maschile nei confronti delle donne. Temi sui quali per qualche giorno viene puntato il faro mediatico, fino alla successiva, sconvolgente, efferatezza.
Uno di questi punti critici e controversi riguarda l’esistenza di luoghi di cura per l’uomo violento e maltrattante.
Fino a pochi anni fa questi centri di ascolto del maltrattante erano diffusi prevalentemente nel centro-nord della penisola e quasi inesistenti al sud.
Vi si rivolgevano volontariamente uomini che sembravano intenzionati a cambiare i loro comportamenti, spesso motivati dal timore di essere lasciati dalle partners.
Le cose sono cambiate con la legge del 19 luglio 2019 n.69 (c.d. Codice Rosso) che, con una modifica all’art. 165 C.P., prevede, per i delitti di violenza domestica e di genere, la possibilità di sottoporsi a un trattamento psicologico con finalità di recupero e di sostegno suscettibile di valutazione ai fini della concessione dei benefici penitenziari.
Zlatan Vasiljevic, il femminicida di Vicenza, aveva partecipato a uno di questi percorsi di recupero.
Sappiamo che è stata la Convenzione del Consiglio d’Europa per la prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica (Convenzione di Istanbul) ratificata nel 2013 a prevedere l’istituzione di “programmi rivolti agli autori di atti di violenza domestica, per incoraggiarli ad adottare comportamenti non violenti nelle relazioni interpersonali” (art. 16).
Senza volermi soffermare sulle questioni critiche, che hanno portato il giornalista Carlo Bonini a parlare di “bancarotta della giustizia che non difende le vittime”, vorrei invece provare a riflettere su questi percorsi di recupero da Codice Rosso.
L’articolista afferma che erano state sospese le misure di prevenzione cautelare nei confronti di Vasiljevic, proprio perché aveva frequentato regolarmente sia un percorso riabilitativo riguardante la sua dipendenza patologica dall’alcol sia di un percorso di recupero per l’interruzione dei comportamenti violenti.
Una legge dello stato, costruita per porre argini alla violenza domestica, rischia di favorire un aumento di femminicidi, in quanto l’uomo maltrattante può usare strumentalmente il percorso di recupero per avere benefici di legge, senza che tale percorso incida minimamente sulla sua predisposizione alla violenza.
La questione mi pare di non poca rilevanza e merita approfondimenti a molti livelli.
Come terapeuta che segue persone in questi percorsi sono consapevole del possibile (e a volte probabile) uso strumentale di questi percorsi. Ma la consapevolezza di questo rischio dovrebbe averla chiunque, a vario titolo, si occupi di un uomo con problemi di violenza.
In un seminario formativo, qualche anno fa, il terapeuta spagnolo Heinrich Geldschlager, proponendoci un frammento dal film di Iciar Bollain “Ti do I miei occhi”, evidenziò come l’uomo potesse usare il suo inserimento in un programma di riabilitazione, per indurre la partner o l’ex partner a riavvicinarsi a lui, comunicandole implicitamente o esplicitamente qualcosa del tipo “guarda sto prendendo sul serio il problema, voglio cambiare, vado addirittura al Cam”.
E questo riavvicinamento a volte è solo una tappa di un nuovo ciclo della violenza.
La legge del 2019 che spinge verso percorsi di recupero rischia effettivamente di indurre, come già sta accadendo, uomini violenti ad atteggiamenti di finta messa in discussione, finto ravvedimento, finto cambiamento.
Bisogna anche considerare che l’uomo violento spesso si presenta bene, e può essere capace di ingannare giudici, avvocati e psicologi. Ma è molto probabile che l’uomo violento riesca in questa operazione di distorsione della realtà soprattutto quando i meccanismi psichici che egli mette in atto (negazione, minimizzazione, diffusione e rovesciamento delle responsabilità) sono gli stessi che, quando lavorano male, usano le istituzioni e i presidi deputati a porre in essere le tre P della convenzione di Istanbul.
Resta aperta la questione se si debba andare nella direzione di continuare a prevedere centri per il lavoro con gli uomini violenti nelle relazioni intime, disinnescando il più possibile i rischi (altissimi) legati alla strumentalizzazione. O se si debba invece lavorare esclusivamente per l’empowerment delle donne intrappolate in relazioni violente. Oppure se i due aspetti del percorso di fuoriuscita dalla violenza possano conoscere un’integrazione nella mente degli operatori, e nelle loro prassi, considerato che l’obiettivo è comune, l’aumento di sicurezza nella vita della donna che si autodetermina.
Un altro femminicidio in questi giorni è stato messo in atto da un operaio di Udine, descritto come una persona tranquilla, “il bambino più buono della classe”, “punto di riferimento per la comunità”, e, a differenza del duplice femminicidio di Vicenza, qui non c’era stata nessuna denuncia, nessuna segnalazione, nessun allarme non scattato, nessun percorso di recupero più o meno strumentale.
Qui c’era solo un uomo che, come si dice con un’altra formula sempre ripetuta, non riusciva ad accettare la decisione della moglie di separarsi.
Credits: Tano Festa, Monumento per un Poeta Morto – Fiumara d’Arte – Tusa
Di Piero Buscicchio, su Ora Legale News
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