
Una questione democratica
di Stefania Cavagnoli (Università di Roma Tor Vergata)
La riflessione sulla lingua e sul linguaggio è un tema ricorrente, nella formazione dell’avvocatura , soprattutto negli ultimi anni.
L’approccio scelto, spesso interdisciplinare, rafforza le interpretazioni e la costruzione del sapere attraverso gli sguardi disciplinari diversi.
È un tema ricorrente perché sempre di più, finalmente, ci si interroga sulla qualità del discorso giuridico, sulla sua comprensibilità (che non è mancanza di precisione), e in fondo sulla sua democraticità. Un esempio concreto di tale riflessione sono le riviste Ora legale (oralegalenews.it), o l’esperienza di FronteVerso (www.fronteverso.it), scritte da giuriste/e in un’ottica di condivisione e di comprensibilità, senza venir meno alla serietà dei contenuti e degli argomenti trattati.

Perché mi soffermo su questo tema?
In primo luogo perché sono convinta che la lingua sia una questione di democrazia.
Forse si potrebbe dare per scontata, questa opinione, soprattutto dopo gli studi “rivoluzionari” di Tullio De Mauro a partire dagli anni Settanta. Quarant’anni sono passati e ancora il concetto della democraticità non è così diffuso. O almeno, non così consapevole in chi parla, comunica, scrive e utilizza la lingua per lavoro.
De Mauro parlava di educazione linguistica democratica come base per un cambiamento della società, iniziando dall’art. 3 della Costituzione, dal principio di uguaglianza. Infatti, la lingua è uno strumento potente, in grado di ridurre le disuguaglianze, a partire dalla comprensione dei testi e dal loro rimpiego nella società.
La lingua definisce e dà visibilità. Considerare come primario un uso adeguato della lingua significa dare un nome alle cose e alle persone, riconoscerne l’esistenza.
«Man mano che cerchiamo di capire come è fatta e a cosa serve una lingua, e quindi come è fatto in generale e a che cosa serve alla specie umana e alla società umana il linguaggio verbale, capiamo che vi è una intrinseca flessibilità dell’apparato formale di una lingua. È una flessibilità dovuta alla necessità biologica e culturale, naturale e storica, di utilizzare la lingua nelle direzioni più disparate. Ciò crea delle consuetudini d’uso, delle modalità d’uso differenziate, dal punto di vista diastratico, diatopico, diafasico e diamesico, come oggi amiamo dire, cioè crea la opportunità e la necessità di adattare l’enorme massa di strumenti che una lingua offre a qualunque parlante a situazioni e modalità d’uso profondamente differenziate» (De Mauro, 2018, 10).
Il linguaggio, che sta alla base delle lingue, è un sistema che si realizza attraverso i/le parlanti.
Dal punto di vista del significato, sono le parole, il lessico, al centro della relazione linguistica, una relazione che è storica, sociale, umana, nel senso che intendeva De Mauro, rispondente alle necessità della società e basata sull’idea del cambiamento.
Le parole uniscono, mettono in relazione, ma possono anche discriminare, allontanare, distruggere.
Conoscere le parole, conoscere molte parole permette di interagire, a livello sociale, politico, su diversi piani.
Conoscere le parole aumenta la capacità di interpretare i testi, che sono il veicolo della comunicazione, di lingua comune o specialistica.
Per questo motivo, la “Guida all’uso delle parole” di De Mauro fu rivoluzionaria, e veicolo di democrazia.
La suddivisione in Lessico fondamentale (circa 2000), Alto uso (2750), o di Alta disponibilità (quelle parole essenziali ma non così frequenti nell’uso) mette bene in evidenza quali siano i requisiti per permettere ai/alle parlanti di leggere e capire i testi.
A dare loro gli strumenti affinché non si debba parlare di analfabetismo funzionale, quel fenomeno di ritorno che l’Unesco, nel 1984, definisce come “la condizione di una persona incapace di comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere da testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità”.
Se i/le parlanti si confrontano con testi specialistici come sono quelli giuridici, caratterizzati proprio da un uso specifico delle parole e dei termini, si trovano davanti spesso ad un’asimmetria linguistica, mentre dal punto di vista giuridico i referenti sono paritari. Un esempio per tutti: la presenza delle donne, del femminile, nei testi normativi.
L’uso quasi esaustivo del maschile così detto “inclusivo”, che in realtà inclusivo non è, in quanto non mostra, non nominandola, la donna, parte da lontano; prima ancora che nei testi giuridici si trova nei testi dei dizionari.
L’esempio seguente considera due sostantivi usati nella lingua comune, ma utilizzati anche in testi giuridici.
Treccani:
cèlibe agg. e s. m. [dal lat. caelebs -lĭbis]. – Chi non ha preso moglie, non ammogliato: essere, mantenersi c.; un vecchio c.; leggi, imposta sui celibi. Il genere femm. è adoperato, come agg., quasi esclusivam. nell’espressione vita c., da celibe; raro con il sign. di nubile: Perpetua … aveva passata l’età sinodale dei quaranta, rimanendo celibe (Manzoni).
Treccani:
nùbile agg. [dal lat. nubĭlis «(in età) da marito», der. di nubĕre «maritarsi»]. – Di donna, che non s’è sposata (è il corrispondente di celibe, riferito all’uomo): essere, restare n.; ha due figlie n., ha una sorella ancora n.; e come s. f.: una n. un po’ attempata; i celibi e le nubili; per estens., stato n., lo stato civile di donna non sposata (e analogam., donna di condizione nubile). Non com. (con il sign. che la parola aveva in latino), che è in età da marito; ant., in età n., in età adatta a contrarre matrimonio, riferito sia a donna sia a uomo: comandò che chi al tempo n. non prendeva moglie non potesse veder gli spettacoli e giuochi de la città (Bandello); lasciando una sola figliuola d’età n. (Giannone).
Leggendo le due definizioni, appare chiaramente il diverso peso dato alle parole; mi pare indicativo l’uso dei verbi (prendere moglie verso donna che non s’è sposata), così come gli esempi, utilizzati per il femminile (una nubile un po’ attempata).
Questi sono gli esempi che ci guidano nell’uso della lingua italiana, e che formano il nostro modo di pensare.
È vero che le parole cambiano, possono cambiare, e nel diritto si assiste spesso ad una risemantizzazione di termini (basti pensare al significato di suffragio universale prima e dopo il 1946); si pensi a come è cambiato l’uso di figlio/a all’interno dei testi legislativi.
Dalla differenziazione di figlio/a adulterino/a, illegittimo/a, naturale ad un uso comprensivo del sostantivo, senza bisogno di specificazione, di connotazione negativa, attraverso un aggettivo.
La lingua e il linguaggio giuridico cambiano abbattendo tabù linguistici che hanno abbattuto, a loro volta, tabù morali considerati tali dalla società di riferimento.
In tale cambiamento, si assiste anche ad un uso meno ostile della lingua, che considera la descrizione della realtà tutta; realtà in movimento, come avviene con la lingua.
Meno ostile significa una lingua includente, non stereotipata, non d’odio.
Una lingua scelta consapevolmente, anche all’interno di testi specialistici.
Perché le parole pesano e si adeguano alla realtà sociale, al contesto.
È quindi necessario che soprattutto coloro che hanno incarichi istituzionali diano l’esempio usando una lingua adeguata, chiara e precisa, ma comprensibile, non ridondante, non oscura. Una lingua non violenta.
Il linguaggio giuridico è una varietà linguistica di prestigio, che può esercitare un grande potere e spesso perfino forza normativa.
Un uso adeguato di tale linguaggio può modificare i rapporti di potere e rappresentare la realtà.
In tale rappresentazione, non solo il legislatore, ma tutte le giuriste e i giuristi hanno una grande responsabilità per il cambiamento.
Image credit: Gerd Altmann da Pixabayò
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