La Costituzione si è mossa

La Costituzione si è mossa

di Tania Groppi (Professoressa ordinaria di Istituzioni di diritto pubblico – Università degli Studi di Siena)

“La Costituzione si è mossa”: la precettività dei principi costituzionali sulla parità di genere e l’utilizzo del potere sostitutivo del governo nei confronti della Regione Puglia

Rights from Wrongs

La storia dei diritti umani è tutt’altro che un lungo fiume tranquillo. L’esperienza ci mostra che la consapevolezza di avere diritti deriva spesso dalla sensazione di ingiustizia che scaturisce da una violazione (“Rights from Wrongs”, recita il titolo di un noto volume americano): nella maggior parte dei casi, le conquiste non sono il risultato di una progettualità ben meditata, ma procedono a scatti, come reazione innescata da una violazione che mette in moto un attivismo.
Per questo, a livello procedurale, esse sono il portato degli strumenti più vari, quasi sempre ‘anomali’ rispetto alle ordinarie vie di innovazione normativa: di solito si tratta di decisioni giurisdizionali, a volte di interventi dell’amministrazione o dell’esecutivo, anche con l’uso di poteri straordinari o d’urgenza.

Le ‘grandi riforme’ arrivano in un secondo momento, a sistematizzare e razionalizzare un quadro che spesso si presenta come una scacchiera fatta di luci e ombre. La storia dei diritti delle donne, che altro non è che la storia della più diffusa e persistente violazione dei diritti umani dagli albori dell’umanità, ben rispecchia questo tipo di processi, ma tanti altri esempi potremmo fare, riguardo ai diritti delle minoranze etniche o sessuali, al diritto alla salute, al fine vita, fino ad arrivare alla tortura, alla pena di morte, alla schiavitù.

Questo mi pare il punto di partenza per leggere la vicenda ‘nostrana’ e alquanto più circoscritta dell’utilizzo del potere sostitutivo da parte del governo nei confronti della Regione Puglia, attraverso il decreto-legge 31 luglio 2020, n. 86, recante “Disposizioni urgenti in materia di parità di genere nelle consultazioni elettorali delle regioni a statuto ordinario” (tempestivamente convertito nella legge 7 agosto 2020, n. 98): ovvero del primo caso di attivazione del potere sostitutivo previsto dall’art. 120, comma 2, della Costituzione, a seguito di una omissione legislativa regionale.

Un provvedimento che può apparire sorprendente, specie se si tiene conto delle innumerevoli ed impellenti problematiche di ogni tipo generate nel 2020 dalla pandemia da Covid-19, che sembrerebbe mettere in primo piano ben altre questioni rispetto a quella della presenza femminile nei consigli regionali. Ma che, a guardare meglio, sorprendente non è affatto: esso ha infatti radici antiche, che proprio in epoca di pandemia sono venute più chiaramente allo scoperto, come cercherò di mostrare, sinteticamente, nelle pagine che seguono.

Una storia italiana

La vicenda che ha condotto, nel cuore dell’estate del 2020, al decreto-legge n. 86/2020 parte da lontano e vede intrecciarsi due tematiche che hanno connotato gli sviluppi del diritto costituzionale italiano degli ultimi venti, o persino venticinque anni: l’autonomia legislativa regionale e la garanzia delle pari opportunità tra donne e uomini nell’accesso alle cariche elettive.
È soltanto dal 1999 che le regioni a statuto ordinario dispongono della potestà legislativa, concorrente, riguardo al “sistema di elezione” dei propri consiglieri: infatti, nell’ambito del processo di ampliamento delle competenze regionali innescatosi nella seconda metà degli anni Novanta, la legge costituzionale n. 1/1999 ha modificato in questo senso l’art. 122, comma 1, della Costituzione.

Il legislatore statale ha dettato le disposizioni di principio, in attuazione dell’art.122, comma 1, qualche anno più tardi, con la legge n. 165/2004: in particolare, l’art. 4 contiene i principi, assai stringati, in materia di “sistema di elezione” dei consigli regionali, senza prevedere, nel suo testo originario, alcun principio specifico quanto alla parità di genere.
Questo benché, medio tempore, l’ampia riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione recata dalla legge costituzionale n. 3/2001 avesse inserito nel nuovo testo dell’art. 117 un comma, il settimo, specificamente dedicato alle pari opportunità in ambito regionale.
Non solo: tale comma esplicitamente prevedeva (e prevede) che le leggi regionali “promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive”. Principio questo ripreso negli anni successivi da molti statuti regionali.

Ancor di più: un anno prima dell’adozione della legge n. 165/2004, nel 2003, l’art. 51, comma 1, della Costituzione era stato modificato dalla legge costituzionale n. 1/2003, che aveva aggiunto al testo originario (“Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”) una ulteriore proposizione, secondo la quale “A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”.

Una modifica divenuta necessaria, come è noto, a seguito della assai criticata sentenza della Corte costituzionale n. 422/1995, che aveva ritenuto il testo originario dell’art. 51 non sufficiente a dare copertura costituzionale alle azioni positive in materia elettorale.

Ci sono voluti però molti anni (e molta inerzia da parte dei legislatori regionali, dovremmo aggiungere!) perché il legislatore nazionale si decidesse a introdurre nella legge n. 165/2004 un principio apposito. Ciò che è avvenuto con la legge n. 215/2012, il cui articolo 3 ha inserito nell’articolo 4 della legge n. 165/2004 una lettera c-bis), chiamando i legislatori regionali al rispetto della “promozione della parità tra uomini e donne nell’accesso alle cariche elettive attraverso la predisposizione di misure che permettano di incentivare l’accesso del genere sottorappresentato alle cariche elettive”.

Ma neppure tale nuovo principio è riuscito a spingere i legislatori regionali a modificare la normativa elettorale, al punto che, nella XVII legislatura, è stato necessario un ulteriore intervento legislativo statale. La relazione che accompagna il disegno di legge presentato il 3 luglio 2014 (A.S., d.d.l. n. 1556), che è all’origine della legge n. 20/2016, è significativa. In essa si legge: “Ad oggi, infatti, con la sola eccezione della Campania dove si registra una presenza percentuale di donne elette pari al 26,3 per cento, in nessun’altra regione si supera la soglia del 20 per cento. Inoltre, in alcune regioni si registrano dati addirittura inferiori, si pensi alla Basilicata dove nessuna donna siede all’interno del consiglio regionale o ancora, alla Calabria, Veneto, Puglia o Abruzzo dove si registrano presenze rispettivamente pari al 4 per cento, 5 per cento, 5,8 per cento e 7 per cento, ben al di sotto addirittura del 10 per cento”.

La legge n. 20/2016 (recante “Modifica all’articolo 4 della legge 2 luglio 2004, n. 165, recante disposizioni volte a garantire la parità della rappresentanza di genere nei consigli regionali”) ha sostituito la lettera c-bis) con un nuovo testo, che è quello oggi vigente, che declina in maniera assai puntuale il principio già introdotto nel 2012, dettagliando direttamente le misure per la promozione delle pari opportunità tra donne e uomini nell’accesso alle cariche elettive, a seconda del sistema di elezione scelto dalla regione.

Si prevede infatti che “ 1) qualora la legge elettorale preveda l’espressione di preferenze, in ciascuna lista i candidati siano presenti in modo tale che quelli dello stesso sesso non eccedano il 60 per cento del totale e sia consentita l’espressione di almeno due preferenze, di cui una riservata a un candidato di sesso diverso, pena l’annullamento delle preferenze successive alla prima; 2) qualora siano previste liste senza espressione di preferenze, la legge elettorale disponga l’alternanza tra candidati di sesso diverso, in modo tale che i candidati di un sesso non eccedano il 60 per cento del totale; 3) qualora siano previsti collegi uninominali, la legge elettorale disponga l’equilibrio tra candidature presentate col medesimo simbolo in modo tale che i candidati di un sesso non eccedano il 60 per cento del totale”.

Ecco servito un ventaglio di possibilità per i legislatori regionali, ai quali non restava che recepire la soluzione corrispondente al sistema elettorale prescelto. Poteva il legislatore statale fare di più? E che cosa? Introdurre direttamente, con normativa autoapplicativa cedevole, in ciascuna legge regionale non adeguata le norme mancanti, appoggiandosi su una delle competenze statali dell’art. 117, comma 2? E quale? Probabilmente la lettera m), che si riferisce alla “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”: ma l’accesso alle cariche elettive di cui all’articolo 51, comma 1, che si colloca nel titolo della Costituzione sui “rapporti politici”, può essere fatto rientrare in tale previsione?

Mi sento di dire che un intervento di questo tipo da parte del legislatore statale, realizzato inevitabilmente senza la partecipazione al relativo procedimento delle regioni interessate (in quanto non prevista dalla Costituzione), avrebbe presentato assai maggiori problemi di costituzionalità, anche in termini di leale collaborazione, dell’odierno esercizio del potere sostitutivo, che perlomeno si configura come la tappa estrema di una vicenda che ha offerto alle regioni molteplici occasioni per riallineare la propria legislazione alla legge statale e, tramite essa, al dettato costituzionale.

continua a leggere: ttps://www.federalismi.it/nv14/articolo-documento.cfm?Artid=44098

della stessa Autrice:
http://www.ingenere.it/articoli/democrazia-paritaria-qualcosa-non-va

Image credit: Gino Crescoli da Pixabay

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