Le parole per dirla
di Marina Pasqua (Avvocata in Cosenza)
L’incontro pubblico svoltosi a Firenze, il 14 giugno 2019 su: “Le parole giuste. Violenza di genere e linguaggio giuridico” è la prima tappa di una serie di incontri organizzati da Magistratura Democratica, la rivista Questione Giustizia e D.i.Re – Donne in rete contro la violenza.
Una occasione per riflettere sul linguaggio e sul ragionamento giuridico, anche alla luce di alcune recentissime pronunce.
La tutela della donna va esaminata in una prospettiva storica, tenendo ben presente quanto il discorso storico, nel dibattito pubblico sulla violenza contro le donne, sia connotato dall’ambivalenza della indispensabilità dell’interrogare la dimensione storica e dell’inutilità di generalizzazioni e/o semplificazioni.
Intento è scongiurare il rischio di affrontare il tema in chiave emergenziale, tenendo ben presente l’analisi dei contesti.
Per comprendere appieno le ricadute sul linguaggio e del linguaggio e – in particolare, del linguaggio giuridico – sulle politiche del diritto e sulla cultura di un Paese in un determinato momento storico, occorre soffermarsi su: “Parole, discorsi, scenari” (La violenza contro le donne nella storia. Contesti, linguaggi, politiche del diritto (Secoli XV-XXI) a cura di S. Feci – L. Schettini, Viella Ed. )
Punto di partenza è la definizione, la concettualizzazione della violenza, a partire da quella sessuale nel corso del tempo in Italia. Si tratta delle “parole per dirla”.
Decisivo interrogarsi su come sia avvenuto il passaggio da “stupro” a “violenza carnale e atti di libidine violenta”, a “violenza sessuale” (L. 96/66) a “violenza maschile contro le donne” (attenzione rivolta agli autori e non alle vittime) a “femminicidio” (le donne colpite in quanto donne) ed infine a “violenza di genere” che evidenzia le disuguaglianze uomo – donna e che la Convenzione di Istanbul definisce come: “qualunque violenza contro una donna in quanto tale e che colpisce le donne in modo sproporzionato”.
La qualificazione di genere chiama in causa la dimensione politica della violenza maschile.
La prospettiva storica ci consente di approfondire l’analisi.
Ieri come oggi, oggi come ieri “costa dolore e fatica alle donne, anche nei Paesi in cui esistono leggi per tutelarle, denunciare le violenze che subiscono”.
Il lavoro sulle “parole giuste” è lavoro sulle fonti giudiziarie, sulle sentenze e sulle testimonianze. Riaccendono il dibattito pubblico:
“La soverchiante tempesta emotiva e passionale” (Ass. App. Bologna 14.11.2018).
“La vittima mascolina e scaltra” (App. Ancona in materia di violenza sessuale, 23.11.2017 – annullata con rinvio dalla Suprema Corte).
“Il comportamento della donna che l’ha illuso e disilluso nello stesso tempo…il sentimento forte e improvviso” (GUP Genova, 05.12.2018).
La violenza maritale legittima e legittimata, si pensi allo ius corrigendi, va esaminata nella sua evoluzione giuridica.
Con la denuncia, la violenza coniugale entra nello spazio pubblico, diventa cioè fatto politico.
Il processo si configura come atto politico. Esaminando atti processuali, che valgono a sostenere lo sviluppo di ragionamento intrapreso, indicativo appare quanto fa il Tribunale criminale Bologna, 1606, nel caso Antonia Sanvitale contro Aurelio Dall’Armi.
…“Dimostrando l’inadeguatezza di Antonia nella sfera privata, si distrugge la sua credibilità nella sfera pubblica e si struttura una narrazione della vicenda secondo un modello di rovesciamento della responsabilità che avrà grandissimo successo nei secoli a venire” (da: “La violenza contro le donne nella storia”, Ferrante L., pag. 55 ).
È quello che accadeva e che accade; è quello che, ancora oggi, si tenta di continuo di far accadere nelle nostre aule di giustizia.
Nella società ottocentesca la violenza non è ripudiata, è affidata ai mariti per riaffermare la propria mascolinità.
Diviene oggetto di riprovazione solo se pubblica, lecita se privata. Le donne possono resistere alla violenza, solo se possiedono un proprio patrimonio, hanno cioè una forza economica autonoma.
Procedendo nell’analisi, si giunge alle battaglie del movimento femminista e, dunque, alla mia alla nostra storia.
Alla proposta di legge di iniziativa popolare per modificare la disciplina della violenza segue l’iter parlamentare, durato vent’ anni, per approvare la L. 15 febbraio 1996, n. 66.
Importantissimo l’apporto del femminismo radicale e separatista. Conoscere la storia dello stupro come strumento per perpetrare la condizione di subalternità delle donne rispetto agli uomini, consente di prendere coscienza dei processi che lo rendono possibile per destrutturarli. È nella cultura dello stupro che troviamo, nella sua più alta espressione simbolica, il tentativo di delegittimare la vittima nel processo, le radici profonde dell’ostilità nei confronti delle donne che denunciano la violenza sessuale subita.
Nel libro “L’avvocato delle donne. Dodici storie di ordinaria violenza” a cura di Emanuela Moroli, in cui Tina Lagostena Bassi ricostruiva dodici storie con parole tratte dagli atti processuali, si legge:
“Pensiamo a volte: il mondo sta cambiando, i rapporti tra uomini e donne stanno diventando più liberi e civili; poi apriamo i giornali e ci sembra che niente sia cambiato, che tutto continui a ripetersi, instancabilmente.
È soprattutto l’antica cronaca degli stupri a non conoscere declino; gli uomini continuano a violentare, le donne ad essere violentate, e i processi contro gli stupratori si risolvono molto spesso per la vittima, in un’altra forma di violenza.”
L’impassibilità burocratica dei verbali e dei rapporti, le testimonianze colme di angoscia e d’emozione delle donne che hanno subito violenza; le dichiarazioni insolenti degli imputati, le arringhe troppo spesso capziose e arroganti dei difensori, le colte circonvoluzioni delle sentenze, permettono di confrontare le differenti versioni dei fatti e mostrano come la società elabori e digerisca lo stupro.
Poi le conquiste: la L. 96/66, l’esaltante sua applicazione in molti casi, il rispetto nell’escussione della persona offesa, la giurisprudenza che dà credito alle donne.
Ed ancora, lo sviluppo della legislazione nazionale ed internazionale con le importanti novità introdotte dalla L. 2009/38, dalla L. 2013/119 e dalla Convenzione di Istanbul con i suoi ambiti di azione ovvero prevenzione, protezione, punizione dei responsabili e sostegno alle vittime.
E oggi?
C’è ancora un forte contrasto tra un sistema di tutela delle vittime di violenza astrattamente di grande spessore ed i problemi applicativi della legislazione vigente, soprattutto in relazione alla Convenzione di Istanbul. Sopravvivono e direi, di recente si rafforzano, taluni pregiudizi e stereotipi che rendono ancora faticoso denunciare, stare nel processo, che influenzano o possono influenzare le pronunce.
In tema di violenza di genere manca un adeguato coordinamento tra le disposizioni di diritto penale, diritto civile e procedura penale.
Esiste una sottovalutazione della pericolosità delle condotte violente.
Vi è mancanza di adeguata specializzazione e formazione in una prospettiva di genere.
Interessa sottolineare il rapporto tra prospettiva femminista e discorso giuridico che ne vien fuori, nella prospettiva, elaborata nei centri antiviolenza, grazie alla quale la violenza maschile contro le donne, nelle relazioni intime, è riconosciuta come problema di forte rilievo sociale e la produzione giuridica, in particolare quella giurisprudenziale, è strumento indispensabile per affermare la libertà della singola oppressa dalla violenza.
A tal proposito, non può non menzionarsi l’importanza della costituzione di parte civile dei centri antiviolenza a fianco delle donne: la lesione del diritto di quella donna è lesione del diritto di tutte le donne.
Credo che obiettivo del discorso pubblico e del pubblico agire sempre più debba essere andare verso una vera democrazia di genere, che abbia fra i suoi strumenti politiche del diritto scevre di pregiudizi e che valorizzino maggiormente il rapporto tra femminismo e discorso giuridico.
Sulle orme di quel “diritto sessuato”, di cui in Italia si è parlato con grande interesse dagli inizi degli anni ‘90 e il cui sviluppo ha subito rallentamenti da parte di posizioni diffidenti o dichiaratamente ostili.
Solo cosi, potranno consolidarsi le conquiste raggiunte, superarsi i problemi applicativi ed infine, contrastarsi gli arretramenti culturali che traspaiono dalle pronunce più recenti e dalle prassi giudiziarie.
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