
Difesa e violenza di genere
di Tina De Michele (Avvocata e Operatrice Centro Antiviolenza Be Free di Termoli)
In un’intervista rilasciata ad Enzo Biagi nel 1983 Donatella Colasanti, vittima di uno dei più noti casi di cronaca riguardanti la violenza di genere, affermava che quanto accaduto dal 29 settembre al 1° ottobre 1975 nella villa del Circeo era un fatto che avrebbe dovuto riguardare “tutti” e non solo le femministe, lamentando l’attenzione morbosa dei media sui dettagli efferati e scabrosi del rapimento, l’eccessiva durata del processo e l’assenza della società civile.
A parte le donne, più o meno legate ai movimenti femministi degli anni 70, infatti, nel corso del processo non c’era stato nessuno accanto a Donatella Colasanti ed alla sua Avvocata Tina Lagostena Bassi.Soprattutto erano assenti “gli uomini”, ossia coloro che avrebbero dovuto sentirsi parimenti offesi dal comportamento dei tre colpevoli.
Donatella Colasanti aveva acquisito la consapevolezza del fatto che il problema della violenza sulle donne non è semplicemente una questione di donne contro uomini, di affetti e di amori non corrisposti, di pulsioni più o meno animalesche, ma è un problema che dovrebbe coinvolgere la società intera e gli equilibri su cui la stessa si regge.
Del resto in letteratura il femminicidio ha sempre assunto dei contorni romantici e passionali, basti citare alcuni esempi famosissimi: l’Otello di Sheakspeare, il Rosso ed il Nero di Stendhal, la Sonata a Kreutzer di Tolstoj, L’Idiota di Dostoevskij, sono tutte opere letterarie di altissimo pregio che si chiudono con il medesimo finale, ossia l’omicidio della donna amata dal protagonista, compiuto per “troppo amore”, per possesso, per gelosia.
Inevitabilmente porre l’accento su questo sentimento forte e perduto comporta necessariamente una sorta di deresponsabilizzazione del colpevole, vittima di una forza indomabile, quasi costretto a compiere un gesto efferato.
L’eco della narrazione romantica del femminicidio è del resto percepibile ancora oggi, nel modo (sbagliato) di raccontare i fatti di cronaca da parte dei media: si pensi all’omicidio di Elisa Pomarelli, in cui il colpevole venne definito “gigante buono” da alcune testate nazionali.
Negli anni 60 e 70 la società italiana cambia profondamente, così come cambia la sensibilità sociale: motore di questo cambiamento è proprio l’emancipazione delle donne, che si traduce a livello legislativo nella riforma del diritto di famiglia, nelle leggi di tutela delle donne sul lavoro, nella legge sul divorzio e sull’interruzione volontaria di gravidanza. Attraverso questi provvedimenti si afferma, tra gli altri, il diritto delle donne di autodeterminarsi in condizione di parità con gli uomini.
Il cambiamento culturale e sociale però è ben lontano dall’essere al passo con la normativa: le differenze e gli stereotipi di genere sono ben lontani dall’essere scardinati. Basti pensare alla sopravvivenza del delitto di stupro come delitto che offende la libertà morale, che si protrarrà incredibilmente fino al 1996, a testimonianza del fatto che la concretizzazione della parità di genere è invece un processo molto lungo e travagliato.
Il massacro del Circeo, avvenuto nel 1975, ne è la terribile testimonianza.
Oggi, a distanza di oltre 40 anni, viene uccisa una donna ogni 72 ore, e la lettura sociale non può che essere questa: gli stereotipi di ciò che dovrebbe essere “maschile” e ciò che dovrebbe essere “femminile” sono ancora ben saldi.
Quanto più le donne cercano di affermare pienamente il loro diritto ad autodeterminarsi in condizioni di parità con gli uomini, tanto più la reazione può diventare pericolosa e potenzialmente letale, e può comprendere non solo forme di violenza fisica e sessuale, ma anche altre forme di violenza subdole quali violenza psicologica ed economica.
Spesso questa violenza viene consumata anche all’interno del nucleo familiare, con conseguenze ancora più devastanti, specialmente sui bambini.
A maggior ragione, si comprende come la legge penale e gli strumenti di tutela offerti dal codice civile da soli non bastino per arginare il fenomeno, ma occorre un intervento globale e multisfaccettato che preveda la necessità di agire nella società con strumenti culturali, in grado di contrastare da un lato il permanere degli stereotipi di genere, affermando pienamente il diritto di autodeterminazione delle donne, e dall’altro in grado di far cadere il velo “romantico” che ha sempre ammantato la narrazione del femminicidio.
Proprio per questo il problema della violenza sulle donne è un fatto che riguarda “tutti”, così come affermava la Colasanti.
In questa prospettiva, l’Avvocato, in quanto mediatore tra la legge e la società civile, è attore privilegiato e deve acquisire consapevolezza del fatto che nello svolgimento del proprio ufficio non può e non deve mai cedere alla tentazione di abbracciare una tesi difensiva o accusatoria che sposi una visione della donna legata agli stereotipi di genere. Troppo spesso nei processi di violenza c’è la tendenza a “colpevolizzare “ la vittima per il suo abbigliamento, le sue abitudini di vita o la sua condotta. Donatella Colasanti raccontava di aver sentito dire all’avvocato di Izzo: “I tre giovani non volevano uccidere la Colasanti. L’hanno colpita in testa ma non è uscito neanche un po’ di cervello”.
A distanza di oltre 40 anni, l’avvocata difensore di uno degli stupratori di Desiree Mariottini, morta a soli 16 anni dopo essere stata stuprata, presenta una denuncia contro i genitori della ragazza per abbandono di minore, con ciò colpevolizzando indirettamente la vittima, che si era recata nel luogo dell’omicidio per consumare droga.
La strada del diritto di difesa è lastricata di buone intenzioni; ma siamo certi che faccia bene al processo ed alla società utilizzare strumenti che sviliscono la donna, le sue abitudini ed il suo modo di essere al fine di sminuire la condotta dell’imputato?
Occorre acquisire consapevolezza del fatto che la paura della vittima di essere a sua volta “processata nel processo”, proprio per la tendenza di alcuni avvocati a usare strumenti difensivi basati su stereotipi di genere (e di alcuni giudici ad accoglierli), è uno dei fattori che spinge le donne ad avere paura di denunciare le violenze e che nuoce al processo ed alla società intera.
Photo credit:lacphoto.org/Hugh-Kretschmer_Boxing_Gloves
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