
La lunga marcia dei diritti culturali
di Monica Amari (Presidente ARMES Progetti)
A riconoscere, per la prima volta, l’esistenza dei diritti culturali è la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo firmata, il 10 dicembre del 1948, da quarantotto degli Stati che avevano fondato nel 1945 l’Assemblea delle Nazioni Unite (ONU).
L’articolo 22 li nomina e li designa come una categoria autonoma accumunandoli ai diritti economici e sociali e collegandoli al concetto di dignità.
Pur appartenendo alla famiglia dei diritti umani, i diritti culturali non sono stati recepiti come una categoria giuridica autonoma all’interno della nostra Costituzione (entrata in vigore il 1 gennaio 1948) lì dove la regolazione dei diritti e dei doveri è stata ripartita in quattro titoli: Rapporti civili, Rapporti etico-sociali, Rapporti economici, Rapporti politici.
La Dichiarazione del 1948, nel riconoscerne l’esistenza, non ha definito i diritti culturali e non ha offerto quel catalogo che, invece, si sarebbe cominciato a delineare con l’approvazione da parte delle Nazioni Unite, nel 1966, di due patti: il Patto Internazionale sui diritti civili e politici (PIDCP) e il Patto Internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (PIDESC) che definiscono obblighi vincolanti in materia di diritti umani per gli Stati che li sottoscrivono.
I due Patti qualificano come diritti culturali il diritto delle persone appartenenti alle minoranze a godere delle espressioni della vita culturale della propria comunità (art.27 PIDCP); il diritto all’educazione (artt.13 e 14 PIDESC); il diritto di partecipare alla vita culturale, di godere dei benefici del progresso scientifico e della tutela degli interessi morali e materiali derivanti dalla produzione scientifica, artistica e letteraria (art.15 PIDESC).
Come per la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, anche, nei due Patti internazionali manca un principio in grado di fornire una definizione generale dei diritti culturali.
Questa assenza conveniva a quegli Stati, vincitori della Seconda guerra mondiale, che avevano iniziato il processo di decolonizzazione. I diritti culturali, se fossero stati definiti in modo chiaro ed esplicito, avrebbero esplicitato come fondativo il principio della “diversità culturale” che avrebbe favorito il diritto delle comunità territoriali e linguistiche all’autodeterminazione.
La creazione di un catalogo dei diritti culturali, in grado di riconoscerli come una categoria autonoma e indipendente, può essere paragonato a una lunga marcia scandita da cinque tappe.
Se le prime sono riconducibili alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e ai Patti internazionali del 1966, la tappa successiva è rappresentata da un incontro organizzato dall’Unesco a Parigi nel 1968 per celebrare i vent’anni della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
Dai partecipanti viene sottoscritta una Déclaration sur les droits culturels en tant que droits de l’homme dove vengono date le linee guida per la loro interpretazione e applicazione.
Quindici anni dopo l’incontro di Parigi, in occasione della Conferenza mondiale sulle politiche culturali, organizzata dall’Unesco a Mexico City nel 1982, i delegati dei paesi membri sottolineano il diritto alla differenza e l’importanza di un mutuo rispetto per tutte le altre culture, comprese quelle minoritarie.
Nel 1991 sarà un gruppo di esperti internazionali, identificati come il Gruppo di Friburgo, a considerare a fondamento dei diritti culturali il principio di “identità culturale”, il quale per la dinamicità stessa del concetto dovrà essere considerato un diritto ombrello capace di includere altri diritti.
Si concretizzerà l’idea di realizzare una dichiarazione in grado di rispondere a due esigenze.
La prima all’insegna della coerenza, in quanto tutti i diritti dell’uomo devono essere affermati in modo universale e la seconda all’insegna del pragmatismo, in quanto ci si interroga su come sia possibile affermare un diritto a praticare una specifica cultura, senza ricadere nel comunitarismo e nel relativismo culturale.
E, nel 2007, viene presentata ufficialmente a Parigi, nella sede dell’Unesco, la Dichiarazione sui diritti culturali, conosciuta come la Dichiarazione di Friburgo, una versione profondamente rimaneggiata di un progetto redatto per l’Unesco (Les droits culturels, Projet de dèclaration) già nel 1998.
I lavori preparatori della Dichiarazioni di Friburgo possono riconosciuti come documenti fondativi per la Dichiarazione universale sulla diversità culturale (Unesco, 2001), a cui seguirà la Convenzione sulla protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali (Unesco, 2005) e, nel 2005, la Convenzione di Faro da parte del Consiglio d’Europa.
Il tema centrale attorno a cui ruota la Dichiarazione, considerato un importante quanto autorevole documento di soft law, è il riconoscimento della “identità culturale” e l’invito agli Stati nazionali di promuovere il rispetto dei diritti culturali, con politiche culturali adeguate, come condizione per assicurare la dignità umana, espressione di un principio etico che rimane a fondamento dello Stato di diritto e della democrazia.
Composta da dodici articoli, la Dichiarazione di Friburgo riunisce in unico corpus il diritto dell’individuo all’identità culturale, al patrimonio culturale materiale e immateriale, il diritto a riconoscersi in comunità culturali, alla possibilità di accedere e di partecipare alla vita culturale, alla formazione, all’informazione, alla comunicazione e alla cooperazione in termini culturali.
Come primo risultato della Dichiarazione di Friburgo, nel 2009 vi sarà la nomina da parte del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite di un esperto indipendente a cui viene affidato il mandato di proteggere e promuovere i diritti culturali all’interno dei singoli Stati e di denunciarne il mancato rispetto.
All’interno questo contesto internazionale nasce l’esigenza di potere recepire, in modo formale, l’esistenza dei diritti e dei doveri culturali come una categoria indipendente rafforzando la dimensione culturale all’interno della nostra Costituzione, accostandola alla dimensione economica e sociale, lì dove all’articolo 2 si parla di doveri e di solidarietà e all’articolo 3 quando si ragiona di eguaglianza.
Se il riconoscimento dei diritti civili si è basato sul binomio “libertà e proprietà” e l’affermazione dei diritti sociali sul binomio ”libertà e giustizia”, oggi il riconoscimento dei diritti culturali si basa sulla necessità di abbinare il concetto di libertà a quello della conoscenza.
Il fine è cercare di eliminare gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo degli individui, facendo acquisire loro il senso della solidarietà culturale e la necessità di un continuo miglioramento di se stessi non solo in senso materiale ma anche spirituale e culturale, presupposto indispensabile per una valenza etica dell’agire di ognuno.
Ma chi potrà garantire il riconoscimento e il rispetto dei diritti culturali?
L’Italia, sulla falsariga di altri Stati, si è impegnata a costituire per contrastare le violazioni dei diritti umani una Commissione nazionale indipendente.
La possibilità è quella che la Commissione, una volta istituita, possa operare, sostenendo la possibilità dell’istituzione di un Garante dei diritti culturali, come già ha proposto il Manifesto per il rispetto dei diritti e dei doveri culturali presentato all’Assemblea regionale siciliana il 30 novembre 2021.
Se ciò avvenisse potrebbe significare ricostruire una nuova Italia fondata sul sapere, sulla conoscenza, sulla ricerca, sulle competenze, sul merito e sui valori condivisi.

Credits: Jordy Meow da Pixabay
Monica Amari, esperta in politiche e diritti culturali, alterna attività di docenza universitaria a un’attività professionale nell’ambito della progettazione culturale strategica.
Autrice di diversi saggi ha in corso di pubblicazione il volume Elogio dei diritti e dei doveri culturali.
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