
Diritti umani e fattori culturali
Una riflessione sul piano della costituzione e del costituzionalismo contemporaneo
di Carlo Calvieri (Professore associato Istituzioni di diritto pubblico – Dip. Giurisprudenza Unipg)
Molte delle Costituzioni del secondo dopoguerra prevedono forme di riconoscimento e tutela delle diverse manifestazioni attraverso cui la cultura si esprime (scienza, arte, tecnica, insegnamento ecc..) ma, in effetti, l’art. 9 della Costituzione italiana è quello che ha il respiro più ampio, perché sancisce l’impegno della Repubblica a promuovere “lo sviluppo della cultura” complessivamente intesa. Un tratto che, non senza significato, è stato ripreso sia nel Preambolo che nell’art. 44 della Costituzione spagnola del 1978, che è una Carta più “giovane” e sotto molti profili in debito con le Costituzioni adottate all’indomani della Seconda guerra mondiale.
Tanto è che oggi si può affermare che la stessa “idea di Europa” può essere intesa come una Comunità fondata sui diritti, da valutare alla luce della triade “cultura, diritti e Costituzioni”.
Evidente testimonianza di questo progressivo ampliamento delle sfere ordinamentali, da prendere in considerazione per la tutela dei diritti, sono le oramai innumerevoli prese di posizione della Corte di Strasburgo (sul versante della tutela internazionale dei diritti ricavabile dalla CEDU), la collocazione, sul versante sovranazionale, dopo l’introduzione dell’art.6 del TUE del Trattato di Lisbona, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (C.D.F.U.E.) a livello di diritto primario dell’Unione e le costanti regole di diritto pubblico comuni a tutti i Paesi che derivano direttamente dalla Giurisprudenza della Corte di Giustizia UE di Lussemburgo, ma anche le trasformazioni delle moderne società democratiche.
In uno scenario congenere, dove il ruolo delle Corti Internazionali, ma soprattutto della Corte di Giustizia UE, assume caratteristiche tali da poter essere considerato una via di mezzo tra un giudice di common law e un giudice di civil law, stante la portata anche para-normativa delle relative decisioni, si impongono nuovi paradigmi al modo di intendere, su basi meramente formali – razionali, il metodo giuridico e direi le stesse basi tradizionali della formazione “culturale” del giurista.
A ben vedere, la cultura è senz’altro un asset fondamentale del nostro Paese, e diciamo pure del brand Italia costituendo una cifra distintiva di molti prodotti materiali e immateriali che provengono dal nostro Paese, o da nostri connazionali nel mondo. Ma ovviamente la cultura non è solo questo.
La cultura è un elemento costitutivo della democrazia, dato che suo tramite si consente la partecipazione consapevole dei cittadini ai processi decisionali, ma è anche il germe del pluralismo, della dialettica, del confronto.
Senza cultura non c’è pluralismo, e senza pluralismo non c’è democrazia. La cultura è un formidabile anticorpo contro le tendenze della società di massa a subire livellamenti delle identità o forme di direzione intellettuale e morale.
I nostri Costituenti, testimoni della concretezza ferrea di un’esperienza dominata dal pensiero unico, avevano ben presente questo aspetto, e perciò hanno valorizzato la cultura sia nella sua dimensione individuale, che nella sua portata di sistema etico-politica.
In sede di Assemblea costituente, nella seduta del 22 dicembre 1947, il Presidente Meuccio Ruini segnalò proprio che nel testo predisposto dal comitato dei redattori spiccava il “concetto aggiunto dello sviluppo culturale in genere“.
La genesi di questa modifica, pur non del tutto chiarita, è probabilmente il frutto di un emendamento proposto da Enrico Medi (un fisico, più tardi conduttore di uno dei primi programmi di divulgazione scientifica della televisione italiana), e dell’apporto di alcune delle principali personalità presenti nel comitato: Calamandrei, Moro e Dossetti.
Possiamo quindi affermare che è attraverso la cultura che si creano le basi per la stessa capacità di espressione e realizzazione della personalità umana, creando i presupposti imprescindibili a garantire la dignità delle persone, scongiurando quelle logiche di “reificazione”, cioè di assimilazione dell’uomo alle cose, alla base di molte dinamiche di prevaricazione.
Nell’attuale scenario globale o post globale, la forza delle tradizioni giuridiche, in costante contaminazione e ibridazione fra loro, incidono gradualmente sull’insieme dei diritti umani e fondamentali tutelati sia dalle costituzioni nazionali che dalle Carte internazionali e sovranazionali dei diritti, consentendo l’elaborazione di nuove chiavi culturali (in primis) ed ermeneutiche (in secundis), necessarie alla (ri)costruzione dei sistemi giuridici, che offrono al giurista nuove occasioni di riflessione sullo stesso sistema delle fonti del diritto.
Sul versante interno concepire la “cultura” in senso complessivo non è un esercizio di retorica meramente ornamentale o casuale, tanto che, grazie alla più avveduta giurisprudenza della Corte costituzionale possiamo inserirla a pieno titolo nel pantheon dei più preziosi beni costituzionali.
Seppur non sia agevole individuare prese di posizione della Consulta a favore di un vero e proprio valore sistemico del bene “cultura”, da alcune sue decisioni se ne può trarre il richiamo alla sua primarietà.
Mi riferisco alle sentenze n. 151 del 1986 e n. 118 del 1990.
La sentenza n. 151 del 1986 evoca il primato della cultura che impedisce – secondo il giudice costituzionale – di subordinare l’interesse estetico-culturale a qualsiasi altro, ivi compresi quelli economici. Nella sentenza n. 118 del 1990, la Corte afferma: “lo Stato deve curare la formazione culturale dei consociati alla quale concorre ogni valore idoneo a sollecitare e ad arricchire la loro sensibilità come persone, nonché il perfezionamento della loro personalità ed il progresso anche spirituale oltre che materiale. In particolare, lo Stato, nel porsi gli obiettivi della promozione e dello sviluppo della cultura, deve provvedere alla tutela dei beni che sono testimonianza materiale di essa ed assumono rilievo strumentale per il raggiungimento dei suddetti obiettivi sia per il loro valore culturale intrinseco sia per il riferimento alla storia della civiltà e del costume anche locale; deve, inoltre, assicurare alla collettività il godimento dei valori culturali espressi da essa“.
Ma plurime prese di posizione a tutela dei valori e del pluralismo culturale si possono trarre anche dalla giurisprudenza delle Supreme Corti europee, che traggono linfa dalla stessa Dichiarazione universale dei diritti culturali intesi come diritti dell’uomo, e dai cui lavori preparatori Boutros Ghali aveva proposto di definire il diritto alla cultura come «diritto di ogni uomo ad accedere alla conoscenza, alle arti e alle lettere di tutti i popoli, di partecipare al progresso della scienza e di godere dei suoi benefici, di portare il proprio contributo all’arricchimento della vita culturale» .
Questo mutamento di prospettiva, a sua volta, determina un progressivo avvicinamento delle stesse tradizioni comuni degli Stati aderenti alle organizzazioni internazionali preposte alla tutela dei diritti umani e fondamentali che, a loro volta, consentono un rafforzamento del loro primato attraverso l’interpretazione affidata alle Supreme Corti dei Diritti.
Diritti che conseguentemente, possono trovare tutela sia nelle Costituzioni nazionali, nelle Carte internazionali ed ora anche sovranazionali dei diritti e libertà fondamentali, ma fors’anche sulla base delle c.d. “tradizioni costituzionali comuni”, che in via giurisprudenziale trovano alimento dalle decisioni della Corte di Giustizia UE, ma anche della Corte Europea dei diritti, stante il richiamo dell’art.52 co.4 CEDU ove si rinvia ai diritti fondamentali quali risultino dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri; diritti da interpretare “in armonia” con tali tradizioni.
Ma a quali tradizioni occorre far riferimento?
Patrick Glenn, nel suo libro Tradizioni giuridiche nel mondo. La sostenibilità della differenza (ESI 2011) evidenzia come la globalizzazione abbia di fatto alimentato la concorrenza fra tre principali soggetti: l’Occidente, l’Islam e l’Asia orientale, ambiti geopolitici portatori di Tradizioni giuridiche profondamente diverse.
Un tale contributo ha stimolato la gran parte degli studiosi di diritto comparato (pubblico e privato) ad occuparsi delle tradizioni giuridiche come elemento indispensabile per la comprensione delle trasformazioni in atto e per meglio adattare gli istituti giuridici alle trasformazioni della società nell’era della globalizzazione o della post-globalizzazione.
Tanto che il connotato forse più significativo delle nostre società contemporanee post-moderne è certamente quello aperto, di tipo multiculturale o, per usare terminologie oggi più appropriate, “interculturale”, a sottolineare l’importanza del dialogo rispetto all’elemento statico della tolleranza fra culture diverse.
Negli attuali contesti sociali emergono sempre più esigenze di tutela di diritti e libertà fondamentali connesse alla propria scelta religiosa permeata da fattori impregnati da profonde tradizioni culturali non sempre in sintonia con gli ordinamenti giuridici.
La risposta degli ordinamenti può essere diversa.
Il diritto europeo continentale tende a considerare recessivo il precetto religioso rispetto alle leggi statali, prevale un atteggiamento il più possibile laico volto a vietare ogni simbolo religioso nei luoghi pubblici o nell’esercizio di pubbliche funzioni, mentre in altri ordinamenti si registra una maggiore flessibilità.
E spesso in questo “theatrum” va in scena il mito della tragedia di Antigone: deve prevalere il precetto legale di Creonte che vieta la sepoltura al traditore Polinice o il profondo sentimento religioso che anima la sorella Antigone?
La complessità dei tessuti sociali pone sempre più spesso dilemmi per comporre precetti religiosi e statuali che non possono trovare facile soluzione se affrontati sulla base di una meccanica applicazione delle regole date sulla base di modelli meramente formali razionali volti ad ignorare sic et nunc il problema.
Ecco allora che per comprendere l’attuale scenario globale o post globale, soccorre al giurista lo studio diacronico delle tradizioni giuridiche, in costante contaminazione e ibridazione fra loro, che potrebbero fornire nuove chiavi culturali (in primis) e di conseguenza ermeneutiche, necessarie alla (ri)costruzione del sistema delle fonti del diritto.
La globalizzazione esige infatti che le diverse culture, innanzitutto giuridiche che si offrono alla nostra osservazione, comunichino, si confrontino e che un tale approccio osmotico porti ad una reciproca conoscenza in grado di distinguerne le peculiarità.
Dobbiamo quindi immaginare un percorso dinamico dove i primi protagonisti sono gli avvocati, i magistrati gli studiosi e gli studenti ma anche i pubblici funzionari, al fine di garantire quell’idea di Europa, che all’inizio di questo breve scritto abbiamo definito, usando le parole di Lucien Febvre (Storia di una civiltà, 1999) e Peter Häberle (Per una dottrina per la Costituzione come scienza della cultura, 2001), come “Comunità fondata sui diritti” e da valutare alla luce della triade “cultura, diritti e Costituzioni”.
Ma quale cultura?
A ben vedere nonostante i giganteschi passi in avanti delle comunità contemporanee viviamo percependo un profondo malessere che imputiamo ad una non meglio definibile “desertificazione della cultura” ben lungi dall’essere un problema solo economico o strettamente giuridico.
Il concetto di cultura è estremamente difficile da teorizzare, poiché, spesso ciò che viene trasmesso attraverso il processo di inculturazione, grazie al quale la generazione precedente induce la generazione più giovane a riprodurre un modo di vivere prestabilito, si radica così profondamente nel comportamento individuale, da non essere più chiaramente percepito dal soggetto, che ne diviene una sorta di portatore inconscio. Ma un tale concetto è altrettanto difficile da proteggere.
Chi percorra questo cammino di scoperta dell’altro, riuscirà, non solo a vedere l’altro con occhi diversi, ma, e questa è forse una delle più grandi ricchezze del processo di scoperta culturale, riconsidererà sé stesso alla luce delle categorie interpretative altrui.
La carta geografica-giuridica del mondo è oggetto di mutamenti epocali che vanno dalla graduale convergenza fra i sistemi occidentali, al ridimensionamento del modello socialista, alla presa di coscienza del mondo giuridico non occidentale.
Di fronte a tale accelerazione storica la comparazione giuridica è chiamata a una radicale revisione delle proprie categorie ordinanti. La dottrina occidentale stenta a star dietro al cambiamento.
Occorre raccogliere la sfida sul presupposto che, in una prospettiva non eurocentrica, i diversi modelli di organizzazione sociale fondati sulla prevalenza del diritto (rule of law), su quella della politica (rule of politics) o su quella della tradizione (rule of tradition) abbiano tutti medesima dignità. Di qui il superamento della sistemologia tradizionale.
Ma è evidente come una così ricca e complessiva visione dello scenario culturale offerto dal confronto tra tradizioni giuridiche e dalle loro implicazioni ed attuazioni in un ordinamento sempre più trans-nazionale e “interculturale”, comporti una revisione complessiva del corredo di strumenti a disposizione del giurista e problematiche di una tale magnitudine che in questa sede, limitata a poche e forse non del tutto limpide riflessioni, è impossibile trattare.

Credits: Orange Fox da Pixabay
Di Carlo Calvieri, su Ora Legale News
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