
Diritto, scienza e virus
di Antonio De Michele (Avvocato in Termoli)
Il tema del rapporto tra scienza e diritto, tra fattispecie concreta e fattispecie astratta, ha radici profonde, che sono state addirittura accentuate dalla pandemia, che sta stravolgendo, non solo le abitudini, ma lo stesso modo di vivere la quotidianità e che si avvia ad essere, per tantissime persone una situazione che non può più definirsi un fenomeno contingente.
L’incidenza della scienza sul vivere quotidiano, ha portato alla creazione di nuove situazioni soggettive, tant’è che si assiste, a seguito dell’affermarsi della tecnologia, a un nuovo modo di essere del diritto e, conseguentemente, a un processo di metamorfosi della figura del giurista, non più umanista quale esso era, ma di giurista tecnologico.
La gestione della pandemia, infatti è stata in ampia misura demandata a comitati tecnico-scientifici e task force, ossia a expertise tecniche, che hanno assunto il ruolo di protagonisti, finendo a volte per sostituire nelle decisioni anche il legislatore.
Per il mondo del diritto, per coloro che affrontano quotidianamente le problematiche giuridico-procedurali, hanno assunto rilevanza ineludibile l’accesso e la fruizione dei sistemi informativi automatizzati, messi in campo dal Ministero della Giustizia, al quale fanno da sponda iniziative che hanno spesso il ruolo di complementarità e di stimolo, come quelle provenienti dalla tradizionale editoria che ha finito per sostituire il libro, con l’informatica del diritto e le banche dati.
Per molti soggetti, all’interno del mondo forense, si sta evidenziando, in maniera veloce e drammatica, una modifica genetica nel modo, non solo di esercitare la professione, ma anche di essere, tant’è che coloro che non riescono ad adeguarsi al diritto informatizzato, mal digerendo, se non rifiutando, l’accostamento più ovvio che è quello della scienza come grande facilitatrice delle regole processuali, vi è il rischio di scomparire dal mercato professionale.
La scienza all’interno del processo sta facendo cambiare il modo di esercitare la professione, il modo di essere avvocato.
In campo civile una modesta app, affiancata ai software ministeriali, sta stravolgendo il modo di celebrare l’udienza.
Le deduzioni di ciascun avvocato vengono trasferite nel verbale di udienza, con la semplice rivelazione di una password temporanea generata per quella causa, per quella udienza, per quello specifico fascicolo.
Il dibattito davanti al Giudice, l’esercizio di retorica, il richiamo alle argomentazioni giuridiche sta sparendo, cosi come rischia di sparire, il modo di argomentare che spesso, unitamente alla preparazione di base, faceva la differenza tra i professionisti.
In campo penale, la contingenza pandemica, sta facendo venir meno, almeno nei giudizi di gravame, quello straordinario esercizio dialettico che era la discussione finale.
Si può accedere alla discussione orale, solo se nei termini prestabiliti si è fatta specifica domanda, salvo poi in udienza sentire il Presidente del Collegio giudicante pronunciare le fatidiche, avvilenti e disarmanti parole: “avvocato si riporti ai motivi”, come dire avvocato “eviti di darci fastidio con la discussione, tanto noi abbiamo già letto quello che ha scritto”.
All’interno del processo evenienze come dattiloscopia, merceologia, grafologia stanno addirittura dilagando. Alcune si sono rivelate essere tecniche decisive ed addirittura rivoluzionarie, come l’accertamento del DNA che ha assunto un ruolo di indiscussa predominanza nel processo.
La vicenda legata ad alcuni omicidi, assurti agli onori della cronaca ha segnato una sorta di punto di non ritorno. L’accertamento scientifico, il rinvenimento di una traccia di DNA, ha finito per oscurare ogni altro elemento indiziante. Ha perso rilevanza il fatto che l’imputato non avesse mai conosciuto o addirittura visto la sua vittima. È bastata una traccia di DNA rivenuta sugli indumenti della vittima, compatibile con quella propria dell’imputato, per assorbire ogni considerazione, argomentazione, confutazione dialettica.
La voce della scienza ha messo a tacere tutte le altre.
Abbiamo già partecipato a processi, nei quali l’istruttoria dibattimentale è stata svilita dai contenuti del richiamo a quanto evidenziato dal captatore informatico, al trojan che in fin dei conti è pure esso un virus che, fatto insinuare in un device, è in grado di acquisire corrispondenza, messaggi, filmati, incidendo finanche sugli aspetti più intimi della quotidianità dei soggetti attinti, con tanti saluti alle garanzie difensive, previste dalle norme, per regolare gli accessi degli inquirenti in un luogo privato.
La scienza, la tecnologia, nell’ambito di un processo, stanno diventato la prova assoluta.
La tecnologia nella sua invasiva perfezione supera ed elide ogni possibile contraria confutazione.
La ragione umana, la dialettica, la cultura, lo studio, l’argomentare, possono sparire dalla scena processuale.
Pochi spazi residuano alla ragione umana per controbattere alla prova tecnologica.
La difesa nel processo potrà tranquillamente essere affidata ad un algoritmo e in tal modo la tecnologia metterà all’angolo la logica umana, di talché si avvererà la profezia di Orwell:
“siamo impegnati in un gioco che sappiamo di non poter vincere. Apparteniamo ad una comunità alla quale la scienza è riuscita ad imporre un linguaggio inadatto all’espressione delle potenzialità critiche del pensiero umano.”
Image credit: Joshua Woroniecki da Pixabay
Di Antonio De Michele, su Ora legale News
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