
Felicità secondo virtù
di Aldo Luchi (Avvocato in Cagliari)
“Un laico perito delle vostre leggi, presa non so quale occasione, cominciò a commendare quella rigida giustizia contra i ladri, la quale ivi allora esercitavasi, e che tal fiata ne erano stati appesi venti ad una forca: laonde si maravigliava dove avveniva che si trovassero tanti ladri, quando che così pochi scampavano dal supplicio. Allora io, avendo ardire, alla presenza del cardinale gli risposi: non ti maravigliare di questo; perciocchè tal supplicio è fuori di giustizia, né giova al pubblico, essendo troppo atroce a punire i furti, né bastante a raffrenarli. Certamente il semplice furto non è tanto peccato che si debba con morte punire. Né alcuna pena, per grande ch’ella sia, può raffrenare dai latrocinj quei che non hanno imparato arte alcuna di acquistarsi il vivere. In questo non voi soli, ma buona parte del mondo imita i cattivi precettori, i quali battono più volentieri gli scolari, che insegnare a quelli. Si determinano contra i ladri gravi supplicj, quando piuttosto era da provvedere che avessero onde guadagnarsi il vivere, perché non venissero a così strana necessità di rubare, e poi perdervi la vita.”
(Utopia, Sir Thomas Moore, 1516)
Dopo cinquecento anni e dopo le Carte Costituzionali di ispirazione illuminista, le considerazioni di Raffaele Itlodeo appaiono attualissime, soprattutto alla luce del dibattito aperto dalla c.d. Riforma Cartabia, che ha fondato (anche) sulla giustizia riparativa l’impostazione di un sistema giudiziario più efficiente, e dalla contrapposta visione afflittiva della sanzione portata avanti da diverse forze politiche per le quali il concetto di “certezza della pena” coincide indefettibilmente con quello di “certezza della carcerazione”.
Un punto essenziale da affrontare, nella prospettiva di risolvere la contrapposizione appena descritta, è quello del costo sociale della carcerazione e dei risultati che essa consegue anche in ragione dell’uso spesso anticipato rispetto alla condanna.
O, per parafrasare le parole di Thomas Moore / Raffaele Itlodeo, se una sanzione meramente afflittiva non sia idonea a soddisfare alcuna funzione preventiva (peraltro contrastante con il dettato dell’art. 27 della Costituzione) determinando, al contrario, un’ulteriore lesione nel tessuto sociale e non sia, al pari dei cattivi precettori che battono gli scolari invece di istruirli, contraria alla funzione stessa dello Stato.
La funzione dello Stato di educare i cittadini alla pace, quale condizione necessaria perché gli uomini possano raggiungere la felicità secondo virtù, risale già alla concezione aristotelica della società (“Τά πολιτικά”, IV Secolo a.C.) e costituisce il fondamento della concezione rieducativa della pena, che non può svolgere alcuna altra funzione se non quella di ricondurre chi abbia violato un precetto, provocando un vulnus della pacifica convivenza attraverso la lesione del bene giuridico protetto dalla norma, al riconoscimento e al rispetto delle regole dettate per garantirla.
In tale prospettiva, l’eccessivo ricorso alla criminalizzazione delle condotte e la conseguente proliferazione di fattispecie incriminatrici (il c.d. panpenalismo), ma ancor più la concezione retributiva della pena, quasi sempre declinata in chiave afflittiva, costituiscono una contraddizione rispetto alla funzione sopra enunciata, perché la mera privazione della libertà fondata sul ὄστρακον rappresentato dalla sentenza e dal provvedimento di esecuzione, da un lato, non consente (se non in casi del tutto eccezionali) il reinserimento sociale del condannato e il recupero di questi all’osservanza delle regole di pacifica convivenza e, dall’altro, non sana in alcun modo la lesione patita dalla vittima, ostacolandone il percorso di superamento del trauma rappresentato dal reato.
In definitiva, nel sanzionare attraverso la carcerazione, a maggior ragione allorquando la privazione della libertà è accompagnata da misure ulteriormente afflittive (come nel caso delle limitazioni all’accesso ai benefici dettate dall’art. 4 bis o del regime di trattamento dettato dall’art. 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario), lo Stato viene meno alla sua funzione (ri)educativa, ponendo in essere una lesione delle stesse regole di convivenza.
Credits: Meriggio – Officine a Porta Romana,1910 – 1910
Di Aldo Luchi, su Ora Legale News
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