Il prezzo della lungimiranza

Il prezzo della lungimiranza

Ricordo di un magistrato fallimentarista: Ivo Greco

di Umberto Apice (già Avvocato Generale presso Corte di Cassazione)

Conobbi Ivo Greco negli anni Ottanta o forse prima, negli anni Settanta: frequentavamo un corso su problematiche di Diritto Societario, materia nella quale io avevo scarse competenze e Ivo, al contrario di me, aveva esperienze pratiche e vaste nozioni teoriche.
La sua caratteristica, come dev’essere per un vero giurista, era di rimanere sempre molto aderente alla realtà: il diritto, per lui, non era mera divagazione astratta, ma homo hominis proportio. E sapeva sostenere le sue tesi con un’autorevolezza “fisica”: nel senso che la robustezza del suo aspetto esteriore rispecchiava la saldezza delle sue convinzioni.

Dopo quelle giornate di studio ci perdemmo di vista, credo per qualche anno, benché lavorassimo entrambi in uffici giudiziari di Roma.
Ci rivedemmo con la sua nomina a Presidente della Sezione Fallimentare e all’epoca non fui l’unico a pensare: “l’uomo giusto al posto giusto”, considerato che il Diritto Societario si occupa delle imprese nella loro vita fisiologica e il fallimento se ne occupa quando si è manifestata una patologia. Perciò, il naturale approdo di un magistrato esperto in diritto societario mi sembrava dover essere proprio la funzione di giudice o di Presidente della Sezione fallimentare.

Il suo modus operandi fu subito apprezzato da tutti: Ivo non si accontentava di una risposta “legale” alle domande di giustizia, ma puntava sempre a una sostanziale “aequitas”.

Fu così che affrontò il dissesto della Federconsorzi, la procedura concorsuale più importante apertasi in Europa sino a quel momento: un concordato preventivo con cessione dei beni che presentava un passivo di dimensioni enormi e un attivo (fondamentalmente di partecipazioni e crediti) stimato in 4000 miliardi. Era chiaro che la procedura si prefigurava di eccezionale complessità e durata, con le dispersioni connesse ai lunghi tempi di realizzo.

Se avesse voluto attenersi all’adagio andreottiano di “non andarsela a cercare”, Ivo avrebbe potuto procedere coi piedi di piombo, limitarsi a provvedimenti di routine e vivere alla giornata (impiegandoci anni e anni nello smobilizzo dell’immane e difforme attivo).
E invece no.
Per fortuna in Magistratura sono esistiti ed esistono giudici che, come filosofia di vita, si attengono a comportamenti che sono l’antitesi del ribaldo consiglio andreottiano.
Ivo si impegnò come in una sfida: liquidare l’azienda in tempi relativamente brevi e offrire ai creditori il massimo delle chances.

La soluzione che caldeggiò, non prevista dalla legge fallimentare ma neppure vietata, era l’unica vincente: costituire una società, la SGR, che avesse lo scopo di rilevare l’intero patrimonio della Federconsorzi, creando così attivo liquido da distribuire subito ai creditori.
Il capitale della società fu sottoscritto, in proporzione dei loro crediti, dalle banche creditrici e, sempre in proporzione dei rispettivi crediti, la partecipazione alla società restò aperta agli altri creditori della Federconsorzi.
Nessuna lungaggine, nessuna dispersione di ricchezza fatalmente connessa alle vendite giudiziarie: anzi, risparmio di quelle spese, che sarebbero state inevitabili in una diversa strategia basata sull’atomistica liquidazione dell’attivo.

Ma quell’ingegnosa trovata trasformò il giudice delegato della Federconsorzi (cioè il Presidente Greco nella sua veste di giudice delegato) in imputato di bancarotta preferenziale.

L’accusa dalla quale fu costretto a difendersi nacque dal sospetto che si fosse creato (tra il g. d., il presidente della S. G. R. e il commissario governativo) un gioco speculativo volto all’appropriazione del patrimonio della Federconsorzi da parte di una “cordata” di creditori.
In pratica, per l’ipotesi accusatoria, ci sarebbe stata una svendita perché il valore di cessione (pari a 2.150 miliardi di euro) sarebbe stato troppo inferiore rispetto al valore di perizia.

Eppure, la Commissione parlamentare d’inchiesta, istituita con legge n. 33 del 2 marzo 1998, non riscontrò – da parte del pres. Greco – né irregolarità né prevaricazioni.
L’operazione – disse la Commissione – conteneva addirittura spunti per ammodernare “l’obsoleta disciplina fallimentare italiana”.

E infatti era chiaro che la SGR non aveva avuto intenti speculativi.
Bastava pensare che la sottoscrizione del capitale era aperta a tutti i creditori, che così rimanevano beneficiari dell’intero patrimonio con il vantaggio, in più, di poter disporre in breve tempo di un’alta percentuale di recupero del credito.

L’esito della vicenda, per fortuna, non fu infausto.

Ma, purtroppo, l’iter del processo penale fu lungo e doloroso: dalla condanna in primo grado all’assoluzione in appello perché il fatto non costituisce reato e, infine, all’assoluzione in Cassazione perché il fatto non sussiste. Nessuna svendita, nessuna bancarotta.

Come affrontò Ivo l’onta del processo penale?
Bene, diranno coloro che lo frequentavano: con serenità e senza dubitare circa l’esito del giudizio.
In realtà, fu per lui, come sarebbe stato per chiunque altro al posto suo, un vero e proprio calvario.
Fu lui stesso ad ammetterlo, a conclusione avvenuta della vicenda, nel suo incontro con il giornalista Giovanni Panebianco (che sull’affare Federconsorzi ha pubblicato un libro: Processo a un’idea, Milano, 2010):

“In una parola? Mortificato. Ma ci pensa? Il Presidente del Tribunale Fallimentare di Roma, un bancarottiere? Di giorno, riuscivo a malapena a superare il senso di disorientamento, di precarietà, di vuoto, le notti, confesso, le notti sono state per me un vero tormento”.

Quale era stata la colpa di Greco, di Pellegrino Capaldo, presidente della SGR, e degli altri coimputati?

Aver ragionato in termini di discontinuità rispetto al passato, aver perseguito non la lettera della legge, ma lo spirito: aver tenuto, è il caso di dire, un comportamento da imitare, non da sanzionare.

E lo capì il legislatore del 2005, che proprio dal concordato preventivo prese le mosse per cominciare ad attuare il suo disegno riformatore della legge fallimentare, sottraendo quello che ancora oggi è il principale strumento di composizione negoziale della crisi d’impresa a ogni vincolo di tipicità, per affidarlo all’autonomia privata nel senso più ampio. Infatti, a seguito del D. L. 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, nella L. 14 maggio 2005, n. 80, il piano allegato alla proposta di concordato preventivo può prevedere la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei creditori “attraverso qualsiasi forma”, anche attraverso “l’attribuzione ai creditori, nonché a società da questi partecipate, di azioni, quote, ovvero obbligazioni”.

Una modalità di esecuzione del concordato, ritenuta reato da un giudice penale, era diventata un’ipotesi suggerita dallo stesso legislatore!

La caratteristica fondamentale della riforma del 2005 fu una nota comune a tutti i progetti che seguiranno a essere formulati: la salvaguardia dell’organizzazione aziendale.
Il classico paradigma liquidatorio viene soppiantato da un’opzione preferenziale verso la continuazione dell’attività aziendale.
L’interesse dei lavoratori, dei fornitori, dell’indotto porta verso una concezione delle procedure concorsuali che tenga in conto, come valore primario, la salvaguardia dell’impresa: in altri termini, il riformatore del 2005 indicava, come ipotesi normale del concordato preventivo, il concordato con continuità aziendale.

Ivo Greco era stato paladino di queste nuove idee e le aveva propugnate nelle varie sedi: anzitutto nel lavoro giudiziario e, poi, nei numerosi Convegni, a cui partecipava entusiasticamente e attivamente.
E, aggiungerei, anche in scritti scientifici: che furono pochi e calibrati, ma molto significativi, come sta a testimoniare il coordinamento del Trattato Pirola, a cui collaborarono tutti i più noti studiosi della materia.

E proprio in quel Trattato, che precedette la prima vera riforma (quella cd. Vietti del 2005), Ivo indicò i due cardini da cui una riforma non avrebbe potuto prescindere:

  • la gestione delle imprese in crisi, non importa se grandi o medie, non può essere sottratta al controllo del giudice;
  • lo spazio per le soluzioni negoziali dev’essere il più ampio possibile, perché solo un modello di concordato a larghe maglie può tutelare ogni tipologia di interesse.

L’inizio della riforma – quei primi provvedimenti del 2005 e 2006 – fu più rivoluzionario di quanto ci si aspettava.

Ma come?
I concordati non dovevano più rispettare il vincolo di una soglia di soddisfacimento?
E il giudice delegato perdeva il suo ruolo direttivo (di “regista”) delle procedure?
(Lui, Ivo Greco, che aveva condotto in porto operazioni che sembravano impossibili, poteva accettare un capovolgimento tale che vedeva il curatore e il comitato dei creditori al centro di tutto, delle nomine dei professionisti, di transazioni, di autorizzazioni?).
E addirittura i proponenti di un concordato potevano suddividere i creditori in classi, frantumando così la par condicio?
Ed era accettabile, nel nuovo corso, il fatto che il giudice delegato, nei concordati, dovesse starsene in un angolo a guardare e senza interloquire neppure quando si accorgeva che la proposta, approvata dai creditori, non era in realtà fattibile?

Non parliamo, poi, della sconvolgente esdebitazione (il disharge), che all’inizio sembrava, più che altro, una moda importata dall’estero. Possibile che un fallito – una volta chiuso il fallimento – avesse il diritto di ottenere la liberazione dai residui debiti non soddisfatti?

Furono tante le perplessità di Ivo, che furono anche le nostre, e furono perplessità di tutta la dottrina e dello stesso legislatore, se è vero che da allora – dal 2005/06 in poi – gli interventi normativi caddero a pioggia, rivelatori di una immanente incertezza: un passo avanti e un passo indietro.

Ma alcuni punti sono rimasti fermi.

Oggi – dopo il varo del Codice della crisi e dell’insolvenza, che per certi versi ha fatto ritorno alle posizioni normative del 1942 – l’approccio culturale di fondo che costituiva il pilastro della riforma Vietti ha resistito: a) nessun pregiudizio penalizzante nei confronti dell’imprenditore insolvente, se incolpevole; b) ampio spazio alle soluzioni negoziali; c) salvaguardia della continuità aziendale.

Con il pensionamento, Ivo non staccò completamente la spina: anche se con le comprensibili amarezze per come erano state ripagate la sua lungimiranza e la sua dedizione al lavoro.
Erano da poco entrati gli anni Duemila quando ci ritrovammo una sera in libreria a presentare, noi due e l’on. Virginio Rognoni non ancora nominato Vicepresidente del CSM, il libro dell’avvocato Dario Di Gravio, Il rosario della giurisprudenza fallimentare, una sorta di racconto sarcastico e demolitorio di alcune sedimentate costruzioni giurisprudenziali.

E ancora una volta per Ivo fu l’occasione per offrire al pubblico degli ascoltatori la sua elegante ironia e la sua concezione del diritto, che, in alcuni aspetti, coincideva con quella del fantasioso autore che stavamo recensendo. Ecco come strizzava l’occhio alle distopiche prefigurazioni del Di Gravio:

Ma l’esistenza di qualche norma ingiusta è purtroppo innegabile ed ecco che Di Gravio propone la sua soluzione, frutto della sua fervida fantasia accompagnata dalla ironia che pervade sempre i suoi scritti: la costruzione di una Corte Suprema del senso comune”.

Come a dire: perché non istituire una Corte Suprema composta, anziché da giuristi, da persone di buon senso (“poeti, filosofi, madri di famiglia, padri disoccupati”)?

Il fervore riformistico degli anni Duemila, sfociato – come abbiamo visto – nella riforma Vietti, vide i giudici fallimentaristi di tutta Italia impegnati più che mai sul terreno interpretativo e dottrinario.
Ivo fu sulla breccia: aveva dedicato gli anni centrali della sua vita professionale a dibattere le tematiche legate alla vita delle imprese e perciò, anche da pensionato, non si tirava indietro quando gli chiedevano di partecipare a un Convegno, una tavola rotonda, un corso.

Se ripenso a quegli anni, mi rivedo con lui, al suo fianco, in molti dibattiti e convegni, organizzati dai più disparati enti scientifici, ma soprattutto dal C.S.M. e dai Consigli degli Ordini di Avvocati e di Dottori Commercialisti.
Ma, andando molto più indietro negli anni, è con particolare nostalgia che ricordo uno stage a Lussemburgo, di cui Ivo non nascondeva di andare fiero, essendone stato in qualche modo l’artefice o l’ispiratore presso il CSM: eravamo una dozzina di magistrati italiani, inviati presso la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) per assistere a tre, quattro giornate di udienze.
E il fatto che di quel manipolo di magistrati facesse parte Giovanni Falcone fu un motivo in più, negli anni successivi, perché quella manciata di giornate restasse particolarmente viva nella nostra memoria.

Ma il mio ricordo di Ivo, nella sua presenza ai Convegni e agli incontri di studio, è legato soprattutto allo stile con cui, in qualità di Presidente, conduceva i lavori.
Uno stile poco paludato, che si ispirava all’understatement piuttosto che all’assertività. Il che corrispondeva, poi, alla sua natura: nel lavoro amava il confronto e il sereno dibattito delle idee (diventato a mia volta Presidente, in Procura Generale della Cassazione, era lui per me il modello di riferimento nei rapporti con i colleghi magistrati, con gli avvocati e con il personale esecutivo); nei Convegni era abilissimo nel percepire i momenti di stanchezza e nel ricorrere alla battuta di spirito per ridestare l’interesse di tutti gli astanti; nel tempo libero, se si trovava in compagnia di amici, sbrigliava il suo senso dell’umorismo con gag e trovate spiritose, disorientando a volte gli interlocutori, che non riuscivano a comprendere come potessero essere concomitanti tanta effervescenza e tanta autorevolezza.
Era fatto così Ivo: intelligente ma non capzioso, autorevole ma scherzoso, serio ma non serioso.

Image credit: 2427999 da Pixabay

di Umberto Apice, su Ora legale News

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