
Il reo, il folle e i diritti
di Gemma Brandi (Psichiatra psicoanalista in Milano – Esperta di Salute Mentale applicata al Diritto)
Forse vale la pena evocare per tutti il caso di Lisa Montgomery, la donna giustiziata nello Stato US dell’Indiana sono pochi giorni, per essersi resa autrice di un reato innominabile: estrarre un feto dall’utero di una ragazza incinta per diventarne madre.
Le foto diffuse ci mostrano di lei un sorriso che sapeva essere dolce e una cupezza dello sguardo potenzialmente agghiacciante.
Aveva una diagnosi psichiatrica maggiore e una storia personale in grado di mandare in frantumi chiunque, una storia di abusi perpetrati dalle figure di riferimento, nel silenzio urlato delle mura domestiche.
La pellicola Joker ha provato a indicarci il rischio di una jokerizzazione del mondo, se si continuerà a girare lo sguardo di fronte all’orrore in cui altri crescono e vivono.
Ma dove erano i maestri di questa bimba disperata e ammutolita? I suoi amici, i suoi vicini?
Nulla tentò chi pure di quella vita disgraziata ebbe sentore. Ucciderla aumenterà la rabbia circolante, mentre sembra tacitarla.
La pena di morte non è incivile: è dannosa, proprio perché alimenta la convinzione che un problema non vada compreso – affinché non si ripeta, affinché lo si prevenga- non vada preso in cura, ma semplicemente cancellato, eliminato in maniera sbrigativa.
La pena di morte è l’apoteosi della accidia e sparge su tutti noi il seme dell’odio che abitava, nel caso, la povera Lisa: una persona che nessuno seppe aiutare, a cui nessuno diede il buon limite che sarebbe servito a lei e alle sue vittime, colpevoli unicamente di essersi trovate nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Basterebbe calcolare il numero di gesti gratuiti compiuti da massmurders negli Stati Uniti d’America – che non fanno mistero del loro rapporto vendicativo e sommario con il crimine – da persone la cui fragilità sia misconosciuta, sottovalutata, contestata, per rendersi conto di quanto sia dannosa, prima che inutile, la vendetta.
Occorre ammettere la luminosa virtù del limite e il bisogno di attenzione e cura per prevenire simili epiloghi. La coazione benigna è una declinazione che responsabilizza gli organi della cura e mitiga la durezza gratuita della pena.
Quando una coazione è benigna?
Ogniqualvolta è necessaria (e la pena e la imposizione di una cura possono esserlo), progettuale e individualizzata (anche una coazione si rivela tale, se inserita tra un prima e un poi di un percorso complesso), umana e non crudele, soggetta a un controllo reciproco interistituzionale e non autoreferenziata.
Porre un limite è un dovere sociale ed essere limitati nella corsa verso l’abisso è un diritto civile.
Si è parlato troppo e in maniera troppo superficiale e ideologica di ogni limite, allo scontato grido “la libertà è terapeutica!”, come se la libertà fosse un bene da concedere, una cura da somministrare e non una conquista intrinseca ben più che estrinseca.
L’accidia e l’abbandono hanno la meglio anche laddove non vige la pena di morte – da intendere come forma elettiva di trascuratezza della vita in generale e di quella vita in particolare.
Serve adoperarsi nella costruzione di un diritto alla cura e alla pena le quali, proprio nel momento in cui pongono limiti necessari, attestano di un interesse collettivo per i problemi di chi ne diventa destinatario.
In carcere ci si forma o ci si deforma, al di qua e al di là delle sbarre.
Lavoriamo a un carcere formativo – in grado di comminare pene, non punizioni – e a una cura responsabile, che intervenga prima che l’irreparabile accada facendo dell’imprigionamento l’unica soluzione praticabile.
Smettiamo di parlare di diritto alla pena per coloro che hanno diritto a una cura e di punizioni esemplari per coloro che hanno diritto a una pena.
Pena e punizione hanno etimologie completamente diverse: pena deriva dal latino poenare, vale a dire soffrire, espiare; punizione discende da puniri, cioè vendicare. Restiamo dalla parte della espiazione, del percorso che consente di pagare per il mal fatto e riabilitarsi, invece di carezzare l’idea istintiva della vendetta.
Pic: Gemma Brandi courtesy
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