
La crisi cambia prospettiva
di Michele Cuoco (Giudice del Tribunale di Benevento)
È noto come, all’interno di una diffusa e persistente crisi finanziaria, le mutate esigenze degli operatori economici hanno condotto il legislatore ad un radicale cambiamento della prospettiva assunta nella valutazione e nella gestione della crisi.
E così, da una prospettiva esclusivamente liquidatoria, connessa ad una visione statica del rapporto e sanzionatoria dell’inadempimento (intrinsecamente lesivo del principio generale di tradizione romana secondo cui pacta sunt servanda), dove la “crisi” rappresenta un evento eccezionale e patologico, si è passati progressivamente ad una visione conservativa, finalizzata alla tutela dell’integrità del mercato, dove la crisi diviene una eventualità statisticamente frequente, forse inevitabile nell’evoluzione ciclica di un libero mercato concorrenziale e dove lo stesso mercato è in sé ritenuto idoneo a gestire autonomamente, senza necessità di interventi eteronomi, anche la fase discendente del ciclo sinusoidale di ciascuna attività economica.
Il progressivo sovrapporsi di ripetuti interventi riformatori, tuttavia, ha reso il dato normativo incoerente e frammentato, in quanto frutto del progressivo e continuo sovrapporsi di interventi riformatori orientati verso prospettive radicalmente diverse.
Ebbene, in un’ottica di unitarietà oggettiva, soggettiva e procedimentale, il Codice della Crisi e dell’Insolvenza si propone di gestire organicamente tutte le forme di manifestazione della “crisi”, non solo imprenditoriale; e di fornire – in una prospettiva di tutela dell’integrità del mercato – gli strumenti necessari per la diagnosi precoce dello stato di difficoltà economica e finanziaria e la conseguente tempestiva emersione e gestione. Tutto ciò utilizzando un solo modello procedimentale.
In questo contesto, gli strumenti offerti al “sovraindebitato”, il debitore “civile” non soggetto cioè alla liquidazione giudiziale o ad altra disciplina liquidatoria, sono: la liquidazione controllata, il concordato minore e la ristrutturazione dei debiti del consumatore.
La prima è una procedura finalizzata alla liquidazione del patrimonio del debitore ed alla successiva distribuzione del ricavato ed è strutturata sulla falsariga della liquidazione giudiziale, l’attuale fallimento.
Può essere attivata non solo dal debitore, ma anche dal singolo creditore (ma solo nel caso in cui pendano procedure esecutive individuali) o dal Pubblico Ministero (nel caso in cui il debitore sia imprenditore); una volta introdotta, però, è sottratta alla disponibilità della parte “ricorrente” e troverà la sua definizione solo all’esito della (utile) liquidazione di tutti beni (anche futuri) acquisiti all’attivo. E comunque non prima del decorso di un quadriennio.
Le altre due, invece, sono riservate all’iniziativa del debitore (essendo precluso al creditore sostituirsi al debitore nell’introduzione del procedimento) e sono a contenuto aperto (ancorché con un’esplicita preferenza per le soluzioni non esclusivamente liquidatorie) in quanto entrambe articolate intorno ad una proposta con la quale il debitore, in un’ottica remissoria o dilatoria, prospetta un’ipotesi di rideterminazione delle poste debitorie e le relative modalità di adempimento.
Per quanto accomunate dalla medesima ampiezza di contenuto, tuttavia, le due procedure offerte al debitore in alternativa alla liquidazione si differenziano profondamente l’una dall’altra.
Nel concordato minore, strumento precluso al consumatore, la proposta formulata dal debitore, per quanto sottoposta al sindacato del giudice, è diretta in primo luogo ai creditori, chiamati a valutarne la fattibilità e la soggettiva convenienza.
È quindi uno strumento con un evidente carattere di negozialità, strutturato intorno ad un accordo che si forma, all’interno del procedimento, tra il debitore ed i suoi creditori.
Uno strumento che conserva il suo carattere di negozialità nonostante il penetrante potere di controllo riconosciuto all’organo giurisdizionale, chiamato a sindacare non solo i confini esterni dell’accordo, ma anche la sua concreta fattibilità economica; incidendo finanche sulla formazione del consenso (quando il giudice, sottraendo al creditore pubblico, l’amministrazione finanziaria, la sua valutazione di convenienza, “omologa … il concordato minore anche in mancanza di adesione da parte dell’amministrazione finanziaria quando … la proposta di soddisfacimento dell’amministrazione è conveniente rispetto all’alternativa liquidatoria”).
Al consumatore è invece riservata, in ragione della sua intrinseca fragilità contrattuale, la ristrutturazione dei debiti; un procedimento senza voto, privo di elementi di negozialità, nel quale la proposta formulata dal debitore (anche in questo caso a contenuto aperto) non è diretta al ceto creditorio, ma unicamente al giudice.
Un procedimento nel quale le parti sostanziali del rapporto (i creditori), pur legittimati – se non “colpevoli”, per aver abusivamente concesso il credito – a sollevare contestazioni o proporre impugnazioni, sono estromessi dalla rideterminazione delle rispettive posizioni creditorie, rimessa esclusivamente al giudice.
La mancanza di negozialità e la conseguente marginalità del ruolo assunto dai creditori giustifica, tuttavia, un ruolo ancora più invasivo dell’organo giurisdizionale, al quale è affidato non solo il sindacato di legittimità e fattibilità del piano e della relativa proposta, ma anche la più incisiva valutazione di meritevolezza.
Una valutazione, posta a tutela del generale principio di correttezza e buona fede, che si sostanzia in un giudizio di prognosi postuma avente per oggetto la ragionevolezza della prospettiva di adempimento al momento dell’assunzione dell’obbligazione e, con essa, quindi, la diligenza adottata dal debitore (nella fase genetica e nel successivo articolarsi del rapporto) nel prospettarsi le concrete probabilità di adempimento alla luce dei redditi attuali o potenziali.
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